Ieri abbiamo trattato l’orribile tragedia che ha avuto luogo a Pescara, dove è stato trovato morto un diciassettenne che sarebbe stato accoltellato da due minorenni. Questi ultimi non sarebbero cresciuti in una situazione di degrado: si tratta di figli di un’avvocata e di un comandante dei Carabinieri.
La disperazione dell’uomo
Incuriosisce proprio il rapporto tra i presunti assassini e i genitori, che lavorano per la legalità. Il comandante in questione ha rilasciato un’intervista a Il Corriere della Sera in cui ha riflettuto sull’educazione. “Non solo non mi assolvo come padre, ma dico che qui nessun adulto può assolversi davvero. E dico che forse è peggio di come la state rappresentando voi. Farò ricorso a parole da credente, prese in prestito alla fede cattolica. Chi punta il dito commette peccato”, ha esordito.
Ed ecco cosa vede nel futuro di suo figlio: “Vorrei che vivesse migliorando la sua vita da ora in avanti. Desidero che tenga presente nel tempo cosa è accaduto, che abbia vivo il ricordo del ragazzo che ha visto morire e che ne sia all’altezza”.
“Posso solo dire che è molto difficile giudicare, vi chiedo di mettervi nei miei panni. Gli chiedevo dove andasse e cosa facesse, chi erano i suoi amici e come impiegassero il tempo. La risposta era rassicurante e per certi versi ingannevole. Mi diceva ‘esco con il mio amico, figlio di un avvocato’ oppure ‘mi vedo con quell’altro, figlio di un tuo collega’. Avrei dovuto indagare più a fondo? Avrei dovuto non accontentarmi? La risposta non ce l’ho e mi permetto di dubitare di chiunque ce l’abbia. Non è il momento di giudicare è il momento di comprendere”, ha aggiunto, disperato.
“Zona d’ombra della società”
A commentare i fatti Donatella Di Pietrantonio, scrittrice finalista al premio Strega che vive a lavora nel pescarese. “Colpisce l’indifferenza con cui sono state compiute queste azioni successive all’omicidio. Una totale mancanza di empatia e comprensione della gravità del gesto commesso”, ha detto.
“È chiaro che in occasione di questi episodi di cronaca emerge con prepotenza questo disagio dei ragazzi, che qui troviamo da entrambe le parti. Da una parte, c’è un ragazzo fragile per storia familiare, per marginalità appunto, per aver attraversato anche la realtà del carcere minorile. Dall’altra, il disagio opposto ma complementare di ragazzi figli invece di un benessere, di una media borghesia, affetti però da un vuoto abissale, in cui non c’è nessuno spazio per il riconoscimento dell’altro dentro di sé. Nessuna idea della sacralità della vita di un altro. E poi il delitto commesso con tutte queste coltellate, come se si trattasse di un gioco, di una realtà virtuale, quasi una performance tragica dopo la quale si può andare a fare qualsiasi altra cosa, vedere gli amici, svagarsi. Come se nulla fosse accaduto, come se non fosse stato infranto il tabù della sacralità del corpo dell’altro”, questa la sua analisi.
“Vorrei portare l’attenzione su quella fascia d’età tra i 15 e i 18 anni che costituisce una sorta di zona d’ombra della società, dove non arrivano proposte culturali alternative. È come se nessuno se li filasse, non hanno riferimenti. Non sono né bambini, né adulti. Sono nello stesso tempo fragili e aggressivi. Magari li vedi distrutti dalla fidanzatina che li lascia, ma in branco diventano violenti. In quella fascia spesso attecchiscono mode giovanili aggressive. Questi sono ragazzi a cui mancano dei pezzi, hanno un io ipertrofico ma totalmente vuoto. Dove manca la rappresentazione dell’altro da sé”, ha concluso con amarezza.