Il numero 7/8 2024 de La rivista del clero italiano ha ospitato un articolo del Vescovo di Pinerolo, Derio Olivero – presidente della Commissione episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso della Cei, – intitolato “Insegnamento, religioni, spazio laico, Verso un nuovo statuto dell’‘ora di religione’ nella scuola pubblica”.
Il Quotidiano Nazionale ha poi contribuito (con un recente articolo intitolato L’ora X di religione. Chiesa tra facoltà e obbligo: “Pronti al passo indietro”) a far uscire la discussione dalle ristrette mura del dibattito ecclesiale ponendo la questione a livello di opinione pubblica.
Come è noto la questione dell’insegnamento dell’IRC è regolata in Italia dalla revisione concordataria del 1984 che l’ha reso facoltativo continuando ad assegnare al Vescovo (ordinario diocesano) il compito di riconoscere l’idoneità dei docenti che sono poi nominati dall’autorità scolastica.
Da allora – 40 anni fa – molto è cambiato in Italia. Da un lato sono aumentati gli studenti non avvalentesi (ovvero coloro che scelgono di non seguire l’insegnamento di IRC scegliendo tra diverse attività alternative o anche per la non frequenza con complessità organizzative non indifferenti), e dall’altro è decisamente cambiato lo scenario socio-culturale e religioso con un deciso aumento della dimensione interreligiosa e la correlata diminuzione della centralità del cattolicesimo.
Scrive mons. Olivero: “Nel 1984 lo Stato riconosceva il valore della cultura religiosa e i principi del cattolicesimo come parte integrante del ‘patrimonio storico del popolo italiano’ – sottolinea il presule –. A differenza del ’29, l’insegnamento della religione non era più inteso come ‘fondamento e coronamento’ del sistema scolastico. Il clima era cambiato, ma nel frattempo è mutato ancora. Viviamo un inedito pluralismo religioso e una post secolarizzazione che, se non si traduce in una ripresa delle pratiche religiose tradizionali, evidenzia dinamiche di ricerca spirituale imprevedibili“.
Continua il vescovo di Pinerolo: “Preso atto della nuova situazione di pluralismo religioso e della ‘fine della cristianità’, anche il ruolo della religione, e quindi della sua presenza nella scuola, è chiamato a ripensarsi e proporsi come «luogo dove le religioni sono riconosciute, dove il fenomeno religioso non viene taciuto, ma conosciuto e accolto come fattore capace di generare umanità e di costruire legami fraterni. Nello stesso tempo un luogo non delegato a “qualcuno”, ma assunto dallo stato e dalle religioni, senza concorrenza e senza paura di invasioni di campo, nel rispetto delle tradizioni”.
Certo le questioni che il saggio di mons. Olivero solleva sono moltissime e non riguardano solo la dimensione teologica o culturale ma anche, concretamente, il senso e lo stesso futuro degli insegnanti di religione.
Comunque Olivero non propone assolutamente l’eliminazione dell’ora di religione ma, al contrario, ne richiede un profondo ripensamento come spazio pubblico di alfabetizzazione al sacro e all’altro. Una posizione che ritengo decisamente condivisibile.
Del resto il lungo saggio del vescovo si chiude, emblematicamente, con due citazioni “laiche” che postulano proprio la necessità di uno spazio pubblico di ospitalità, fraternità e dialogo.
La prima citazione è ripresa da Massimo Recalcati: “È giusto insegnare ai nostri figli a pregare, se Dio è morto? […] Pregare è un modo per custodire l’evocazione di un Altro che non si può ridurre alla supponenza del nostro sapere, è un modo per preservare il non tutto, per educare all’insufficienza, all’apertura al mistero, all’incontro con l’impossibile da dire […]. Ho deciso, con il consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli che è ancora possibile pregare perché la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. E i miei figli, d’altronde, non me la pongono. Quando me lo chiedono, pratichiamo insieme quello che resta della preghiera: preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inassimilabilità dell’Altro”. (Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, pp. 11-12).
La seconda è di Carmelo Dotolo: “di fronte alla presenza delle religioni altre, il cristiano, mentre s’interroga sulla propria identità, percepisce che gli interrogativi che provengono dall’universo delle religioni interpellano la comprensione che il cristianesimo ha di se stesso”. (Un cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2017, p.143.)
Insomma, mons. Olivero ha gettato un sasso nello stagno e sarebbe triste che tutto ripartisse dallo scontro ideologico che già troppe volte ho contraddistinto questo dibattito.
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