Oramai siamo tracciati per qualsiasi cosa. Dominano gli algoritmi. Per cui, se un giorno facciamo una ricerca su un qualcosa, poi mi ritrovo, anche quando stiamo leggendo o scorrendo un sito su qualcos’altro, pubblicità sulla cosa che stavamo cercando.
Le app ci guidano, dunque, ma anche ci inseguono, perché la personalizzazione é la merce più preziosa al giorno d’oggi in termini comunicativi e commerciali. Il marketing più efficace in un mondo in cui tutto ha un prezzo, e tutto è commercializzabile. Tutto?
Che dire, poi, delle telefonate che riceviamo, anche sul nostro cellulare, per questa o quella pubblicità? Dunque, dove sta la riservatezza, la cosiddetta privacy? Direi di più: c’è una guerra sotterranea, ma sempre meno sotterranea, che sta rendendo ogni giorno più complicata la nostra vita.
È proprio lo scontro tra privacy e trasparenza, nelle istituzioni pubbliche, e quello tra privacy e la voglia matta di mettere tutta la nostra vita, attraverso i social, a conoscenza di tutti. La piazza virtuale ha sostituito la piazza reale.
Possiamo dire che è difficile, in questa situazione, definire bene il confine tra la dimensione privata e quella pubblica della nostra vita personale e relazionale.
Anzi, direi che è il concetto di intimità nostra ad essere in grande crisi.
E’ tutta colpa dei social? Mi pare una risposta sbrigativa, e troppo alla buona. Forse la vera ragione è che, al dunque, noi tutti facciamo fatica a rispondere alla domanda su “chi siamo”, per cui abbiamo continuo bisogno di conferme, di riconoscimenti, di relazioni, di mettere tutto alla mercè di tutti.
Forse è la velocità sempre più asfissiante del nostro vivere, per cui se tutto corre troppo veloce, noi stessi abbiamo timore di perderci, e di perdere i fili che ci legano e dicono un po’ chi siamo. Tutto cioè cambia troppo velocemente.
Proprio per questa ragione, mi viene da suggerire, è davvero una fortuna che ci sia la scuola, che ci sia lo studio, che è bene che ci sia una sorta di “distacco” da questo vortice che fa frullare tutto ad una velocità che toglie il fiato.
Che cosa ci dice, ad esempio, la vita di scuola?
Che ci vuole il tempo per conoscere, per capire, per pensare, per rielaborare, per comunicare, per dialogare. C’è quindi un tempo per, ed un tempo per, per riprendere il Qoelet biblico. Come reggere, dunque, la velocità dei cambiamenti, se non, di tanto in tanto, riservarci anche il tempo della pausa, della lentezza, del silenzio, del pensiero libero?
Correndo e correndo ad un certo punto ci rendiamo conto che di quel correre, alla fin fine, cosa resta, se non un pugno di mosche?
Ci vogliono, quindi, momenti e strumenti per orientarci, per reggere alla velocità del nostro tempo, quella velocità che pretende di metterci tutti a nudo, quasi fossimo, a noi stessi, trasparenti e totalmente leggibili.
Mentre è dentro noi stessi che questa trasparenza non è mai presupposta, ma compito quotidiano di un pensiero che chiede di essere, appunto, pensato.
Ed è nella nostra intimità che questo pensiero pensante chiede la pausa, la riflessione, il confronto, lo studio, la comprensione.
L’intimità che si fa pensiero si fa anche sentimento, senso del limite, pudore, sofferenza, gioia, fede nella vita. Non ci sono social che tengano di fronte a questa esigenza di guardarsi allo specchio, di tanto in tanto.
E guardarsi negli occhi, costretti, almeno per qualche momento, a non nasconderci più, a non più mascherarci, quindi a non più illuderci, a non coltivare solo la paura per il timore di venire scoperti, cioè il pensiero negativo.
So che non è facile questo sguardo, che implica anche sofferenza.
Ma sono le strette vie della coscienza e della libertà in positivo.
E’ la stretta via che domanda, prima o poi, la gioia condivisa.
Tutto questo per dire cosa voglia dire, in concreto, la parola cultura.
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