Il problema della mancanza di dati epidemiologici scientifici, aggiornati e specifici sul contagio nelle scuole emerge anche nelle sentenze dei Tar, che si sono recentemente pronunciati su diversi ricorsi contro le ordinanze regionali di proroga della Dad.
Nell’ultimo periodo, quasi tutte le regioni hanno disposto la Dad alle superiori al 100%, mentre il Dpcm del 14 gennaio prevede la presenza in classe degli studenti dal 50 al 75%. Va detto che i presidenti hanno la facoltà di prendere misure più restrittive rispetto al Dpcm, in relazione all’andamento del contagio. Tutti però hanno dovuto affrontare un immediato ricorso al Tar promosso da gruppi di genitori contrari alla proroga. La scelta rimettere la decisione finale sulla riapertura delle scuole ai giudici, ha di fatto acuito lo scontro, con esiti assolutamente contrastanti secondo i casi. La via giudiziaria insomma non ha portato a una linea uniforme, perché bilanciare il diritto alla salute e il diritto all’istruzione non è così semplice, e soprattutto non si può prescindere da situazioni epidemiologiche locali.
La questione è tuttora incerta, perché, da un lato, il parere espresso dal Cts ha rimesso la responsabilità di decidere alle regioni, ma queste chiedono a gran voce un indirizzo unitario al governo, con parametri di riferimento precisi, proprio per non trovarsi in balia dei Tar.
Le sentenze del giudice amministrativo hanno sempre evidenziato la necessità di motivare le ordinanze con dati scientifici, aggiornati, non generali ma specifici per quel territorio, e in grado di mostrare l’incidenza in ambito scolastico del rischio contagio rispetto all’andamento della pandemia.
Il Tar del Veneto, al momento, ha rigettato la richiesta di sospensiva dell’ordinanza di Zaia, e fissato l’udienza per il giudizio cautelare il 27 gennaio prossimo, considerando che non ci sono i requisiti di gravità e urgenza. Il giudice riconosce tuttavia che gli interessi contrapposti fatti valere dalle parti sono “meritevoli di altissima considerazione e costituzionalmente rilevanti”, ponendo l’accento anche sulla questione cruciale della “non univocità di valutazione dei dati epidemiologici da parte degli Enti competenti”.
In Campania, il 20 gennaio scorso, il Tar ha bocciato l’ordinanza di De Luca, che sospendeva le attività didattiche in presenza delle classi quarta e quinta della scuola primaria, della scuola secondaria di primo e secondo grado. Motivo: l’“insussistenza, nel caso e allo stato, di idonea giustificazione, giuridicamente sostenibile, alla persistente sospensione totale delle attività didattiche in presenza”.
A parere del giudice, l’istruttoria non consente di verificare che ci sia stata “un’attività di rilevazione sul territorio che desse conto dell’effettiva utilità della misura restrittiva, incidente sul diritto all’istruzione, sul contenimento del contagio, che ha, nonostante le disposte sospensioni della frequenza scolastica (anche per effetto della chiusura natalizia), continuato a diffondersi; i dati acquisiti, anche quelli aggiornati, dimostrano invece che il contagio si sviluppa anche quando le scuole sono chiuse (appunto, durante le vacanze natalizie)”.
Insomma il difficile equilibrio fra tutela della salute e diritto all’istruzione deve essere effettuato secondo il principio di precauzione e di proporzionalità, sulla base di rilevazioni condotte con metodo scientifico, che mostrino l’andamento del contagio e giustifichino misure più restrittive rispetto a quelle statali.
Quello dei dati scientifici risulta pertanto l’aspetto sostanziale e dirimente. Il punto è che non disponiamo a tutt’oggi di analisi e ricerche in grado di fornire ai decisori politici dati certi.
Ricordiamo in proposito che il Rapporto dell’ISS (Istituto Superire di Sanità), del 4 gennaio 2021, costituisce al momento la principale fonte che abbiamo sull’andamento epidemiologico nazionale e regionale dei casi di Covid-19 in età scolare (3-18 anni) nel periodo compreso tra il 24 agosto e il 27 dicembre 2020.
Da un lato, il Rapporto ci dice che “la percentuale dei focolai in ambito scolastico si è mantenuta sempre bassa e le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo”.
Però, nelle 40 pagine di analisi, emergono diversi aspetti controversi e attualmente non approfonditi con studi adeguati. Sono emerse variabili regionali sia riguardo alla raccolta dei dati, sia sull’incidenza del virus nella classe di età 14-18 anni. Comunque da metà settembre (riapertura delle scuole), si è osservato un aumento progressivo dei casi giornalieri diagnosticati in bambini e adolescenti dai 3 ai 18 anni di età, che ha raggiunto la fase di picco dal 3 al 6 novembre.
Nel Rapporto si citano vari studi fatti anche all’estero, ma tutti parziali. Pertanto “l’impatto della chiusura e della riapertura delle scuole sulle dinamiche epidemiche rimane ancora poco chiaro”, e anche “il ruolo dei bambini nella trasmissione della SARS-CoV-2 rimane poco chiaro”.
La necessità di ricerche scientifiche e dati certificati sulla diffusione del virus a scuola è stata rimarcata più volte anche dal microbiologo Andrea Crisanti ed è oggetto di una precisa richiesta del sindacato Cgil e della la Flc-Cgil ai ministri Azzolina e Speranza.
Basandosi solo su casistiche empiriche e parziali, non è possibile alcun giudizio di merito sulla reale sicurezza in ambiente scolastico.
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