Sulla scuola i segnali premonitori si vanno addensando. Il rapporto del comitato di esperti istituito dal precedente governo auspica “il superamento dei paradigmi didattici ereditati dal passato”, la ridefinizione del docente come esperto digitale e gestionale, per il quale le disciplinari siano solo una tra le undici competenze necessarie, il ripensamento individualistico dei curricoli; persino l’abbreviamento di un anno del curricolo delle superiori. Un economista viene nominato ministro dell’istruzione, e appena insediato, in emergenza pandemica, annuncia un anno costituente per la scuola. Un italianista di chiara fama, Luca Serianni, suggerisce di abbandonare alle superiori la lettura di canti interi della Commedia. Giovanni Biondi, presidente dell’Indire, va proponendo una “didattica collaborativa online” per tutte le discipline, nuove forme di insegnamento basate su “oggetti” disponibili in rete, il superamento del concetto di ora di lezione: idee che allo scrittore Alessandro Baricco sembrano “fantastiche”. Viene avviato l’inutile e discriminatorio Curriculum dello studente, presentato come “fondamentale per l’esame di Stato e per l’orientamento dello studente” sebbene sia evidente che non deve essere la prima cosa e che non può essere la seconda. Da ultimoil ministro dichiara che l’emergenziale pseudo-esame di Stato di questi due anni, privo di prove scritte, potrebbe essere confermato nei prossimi, in quanto sarebbe “una maturità che prepara all’università, al lavoro e ad altre possibilità di crescita”: stupefacente profezia e dichiarazione di fede.
Non ci vuole una sagacia particolare per comprendere che cosa è in arrivo: la fine della scuola pubblica per come la conosciamo. La fine di una scuola basata sui saperi storicamente costituiti e imperniata sulla figura del magister, e l’avvento di una basata sulle competenze ritenute di volta in volta utili e imperniata sulle tecniche di volta in volta ritenute efficaci per produrle; una scuola nella quale il docente, al di là degli elenchi sempre crescenti delle sue attribuzioni, assuma un ruolo marginale; una scuola, in definitiva, che abbandona l’humanitas per sposare quella che Giuseppe Ungaretti definiva “l’orrenda meccanizzazione”.
Si tratta di una tendenza di fondo che ormai da una quindicina d’anni spinge a un rinnovamento della scuola per adeguarla, così si dice, alle esigenze della contemporaneità; un movimento promosso da persone che etichettano pregiudizialmente tutto ciò che esiste come negativo, mentre qualsiasi novità, anche la più insignificante, viene presentata come buona. E dato che le esigenze della contemporaneità vengono avvertite come tecniche ed economiche, la pressione di questo movimento vuole allontanare la scuola dall’humanitas per avvicinarla alla tecnica e all’economia; e ad un’economia meccanicisticamente intesa, dove uno più uno fa due, dove ogni cosa si fa per ottenerne un’altra prevedibile, dove ciò che conta è solo ciò che si può contare. Per ogni aspetto e problema didattico ci sarà la soluzione tecnica, il protocollo da seguire, che chiunque potrà applicare come chiunque può riscaldare in microonde un piatto precotto: e gli stessi che l’avranno applicato certificheranno che ha funzionato.
Il processo di organizzazione economicista della scuola è in uno stadio avanzato e penetra senza incontrare resistenza. Tra i motivi uno è più pernicioso degli altri: la singolare sinergia con un’altra tendenza di fondo, che si era messa in movimento ancor prima: l’infantilizzazione della scuola. Ormai i vecchi libri di testo delle scuole elementari andrebbero bene alle medie, quelli delle medie alle superiori, quelli delle superiori all’università. Le nuove edizioni sfrondano e semplificano i testi, sommergendoli con ‘ausili alla comprensione’ e ‘strumenti’ spesso imbarazzanti. Alle elementari fino in quinta si “colora” nei compiti per casa e si svolgono esercizi di comprensione da asilo. Alle medie si può continuare a scrivere stringendo la penna nel pugno come un punteruolo. Matricole del liceo non riescono a stare ferme sulla sedia, seguire un discorso che duri più di dieci parole, esprimere un pensiero comprensibile. Le tracce dei temi di un tempo sovrastano di una spanna le lenzuolate di oggi, nelle quali una risposta si può già raffazzonare ricomponendo i materiali e le domandine di comprensione. E la “tesina”, negazione del concetto stesso di esame? E gli obiettivi “minimi”, che devono essere indicati nelle programmazioni? Al liceo è stata come una cascata, soprattutto in italiano. Molti si sono rassegnati, date le condizioni sempre peggiori dei nuovi iscritti, spesso ancora da alfabetizzare: l’asticella è stata abbassata, sempre di più. Finché la marea ha sommerso anche l’università. E si è quindi arrivati – non tutti, certo, ma parecchi sì – a bamboleggiare: perché all’infantilizzazione non c’è fine, è un processo che alimenta se stesso. Chi semplicemente continua a insegnare come sa rischia di essere stigmatizzato come quello che “non pensa al bene dei ragazzi”.
Il bene dei ragazzi. I quali, in capo a qualche anno, si ritroveranno con in tasca curricola e portfoli e attestati inutili e ridicoli; e verranno accusati di essere degli adulti bamboccioni anche da coloro che li hanno fatti bamboleggiare nel periodo più cruciale della loro maturazione. Organizzatori e bamboleggiatori vanno a braccetto: perché entrambi negano l’essenza di una scuola seria, quella basata sui saperi storicamente costituiti e imperniata sulla figura del docente, quella che si pone l’educazione, l’istruzione e la maturazione degli studenti al massimo livello possibile come fine del proprio operato: cosciente che il Tempo, il Lavoro, l’Impegno, la Difficoltà non sono nemici da combattere e contenere, ma i più preziosi alleati che ha.
Enrico Rebuffat
https://www.roars.it/online/organizzar-bamboleggiar-la-scuola-italiana-tra-lincudine-e-il-martello/
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