I lettori ci scrivono

Orientamento e alternanza sono ore che distraggono dal lavoro principale, la scuola

Sul Corriere della Sera del 25/03 è apparsa un’interessantissima lettera di una studentessa di un Liceo Classico di Milano. Tra le tante cose, la ragazza si chiedeva a cosa fossero servite tutte le ore di “orientamento” e di “alternanza scuola-lavoro” svolte nel triennio e se queste non fossero state soltanto delle distrazioni dal suo lavoro principale, ovvero la scuola.

Brava! Finalmente qualcuno che non ha paura di affermare pubblicamente che tante delle cose di cui è stata riempita la scuola sono in realtà prive di valore, utili soltanto a togliere tempo al vero e unico lavoro, quello scolastico. Da docente delle superiori, ho anch’io la convinzione che la scelta sul futuro inizi a prendere corpo a scuola. Ma come? E in quale scuola? Non certo quella di oggi, snaturata fino a diventare un grande contenitore di attività estemporanee che, chiamate ingannevolmente “orientamento”, danno agli studenti solamente l’illusione di chiarire loro le idee, lasciandoli in verità… disorientati. Nella scuola di oggi viene chiamato “orientamento” di tutto: pcto, unità orientative, orientamenti vari, ecc. La parola “orientamento”, a scuola, è ormai diventata come il prezzemolo. Mentre l’unica attività che meriterebbe di essere chiamata a buon diritto con questo nome, quella disciplinare, viene continuamente declassata fino a diventare un accessorio non necessario.

Ma non basta chiamare qualcosa “orientamento” perché lo sia davvero. “Orientarsi” significa infatti essere consapevole di sé, e allora l’unico “orientamento” degno di questo nome lo si può raggiungere nel lavoro scolastico quotidiano, e può emergere solo da lì. Impegnandosi nel cammino della conoscenza, uno studente può infatti misurarsi non solo con i contenuti da imparare, ma anche con le sue capacità, le sue qualità e i limiti della sua intelligenza. È in questo lavoro che un ragazzo può capire come ragiona, quale sia il suo metodo, che cosa gli piace davvero, che cosa gli riesce meglio e che cosa invece non fa per lui. Mentre cerca di conoscere le cose, insomma, lo studente può comprendere non solo le cose, ma anche se stesso, e così poter sperare di fare le scelte migliori per sé e per il proprio futuro.

Trovo terribile che durante il percorso scolastico uno studente debba essere costretto a pensare al proprio futuro con ansia, nei termini di “oddio cosa farò dopo”, anziché come una sana curiosità che potrà trovare una risposta nei tempi e nei modi giusti. E soprattutto trovo terribile che la scuola, per come è diventata, con i suoi “orientamento di qui” e “orientamento di là” incentivi questa ansia sul “dover capire”, secondo una mentalità profondamente utilitaristica che fa credere allo studente di valere nel momento in cui scopre come può diventare produttivo per la società. E che lo faccia al più presto, anche. E pensando così al proprio futuro, si vive il presente con ansia e ce lo si perde. Ma la scoperta della propria strada non avviene pensandoci di continuo fino a farla diventare un’ossessione. La chiarezza, quella vera, può arrivare piano piano, nel tempo, facendo le cose che ci sono da fare e osservandosi mentre le si fa, tendendo l’orecchio affinché questo lavoro possa rivelare qualcosa di utile anche per la comprensione di sé e del proprio futuro. È questo lo strumento principale che un ragazzo ha in mano per comprendere la propria strada. Ma lasciamoglielo fare in santa pace, questo lavoro, senza che debba continuamente pensare ad altro con preoccupazione!

Come facciamo a riconoscere l’università “per noi”, se prima non abbiamo imparato a conoscere chi siamo “noi”, il nostro metodo di studio, il nostro modo di lavorare, i nostri interessi, le nostre qualità, i nostri limiti? Per uno studente, il miglior percorso per l’orientamento non consiste nel fare tante cose buttate lì alla rinfusa, ma nel farne una. Bene. Lasciamoli crescere questi ragazzi, senza gettar loro addosso preoccupazioni che non è giusto che abbiano! Alle medie devono pensare alle superiori, alle superiori devono pensare all’università, e all’università devono pensare ai test o ai master o anche a iniziare già a lavorare. E così non sono mai nel tempo che stanno vivendo, sempre “spostati” da un’altra parte.

La studentessa di Milano si chiede in maniera molto sincera (e molto bella) se possa continuare a “studiare in pace” pur non avendo ancora chiare le idee sul proprio futuro, rispondo: certo che sì. Innanzitutto perché quello è il tuo compito ora. E poi perché “studiare in pace” è l’alleato più grande che hai per comprendere chi sei e dunque per poter fare le scelte migliori per il tuo futuro e per trovare il tuo posto nel mondo, quello che più corrisponde alle qualità che hai scoperto di avere. Quel posto dal quale tu e soltanto tu puoi contribuire a rendere un po’ migliore il pezzetto di mondo in cui vivi. Quel posto dal quale potrai fare davvero qualcosa di grande, perché è il “tuo” posto. A patto però di scoprire innanzitutto chi sei tu. 

Marco Radaelli

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