È opinione comune che siamo ancora lontani dalla parità dei sessi: nel giorno della Giornata internazionale della donna abbiamo cercato di capire perché.
Secondo i dati raccolti annualmente da Almalaurea grazie all’indagine sul Profilo e la Condizione Occupazionale dei laureati, le donne hanno una migliore riuscita negli studi universitari.
Non solo, il numero di laureate è maggiore rispetto agli uomini che conseguono il titolo di studio, ma anche il lasso di tempo impiegato sarebbe minore: mentre gli studenti di sesso maschile tendono ad andare fuoricorso, le studentesse mostrano più regolarità e continuità, ottenendo anche voti migliori e dunque un punteggio finale più alto.
Sempre tenendo conto dei dati di Almalaurea inoltre, le donne investono un maggior numero di mesi per la stesura della tesi rispetto ai colleghi uomini, elemento che a quanto pare influisce sui loro risultati.
Questa spiccata predisposizione allo studio si nota già al termine delle scuole superiori: basti pensare che, dopo aver conseguito il diploma, sette ragazze su dieci si iscrivono all’università.
Ma perché dunque il tasso occupazionale femminile non rispecchia la situazione che simili dati dovrebbero preannunciare?
Se si resta in ambito accademico infatti i docenti universitari donne sono soltanto un terzo del totale, dunque circa il 35%. Il divario è più evidente poi nelle facoltà scientifiche, come Economia o Ingegneria, corsi di laurea nei quali il numero di studentesse è evidentemente inferiore rispetto a quelle iscritte a facoltà umanistiche.
Se già sono poche le donne che si sentono in qualche modo predisposte e portate per lo studio di discipline considerate appannaggio degli uomini, ancora meno sono quelle che riescono ad ottenere una cattedra ed un ruolo all’interno del corpo docenti.
Ad influire, però, sembrerebbe essere anche la commissione d’esame: secondo i dati raccolti da uno studio condotto da due docenti di Economia e Chimica dell’Università della Calabria, la professoressa De Paola e il professor Scoppa, si è potuto osservare come le commissioni d’esame composte esclusivamente da uomini tendano a scegliere candidati di sesso maschile. Quando invece nella commissione è presente almeno una donna, questo svantaggio verrebbe colmato in favore delle candidate.
Ma in generale, se si dà uno sguardo al mondo del lavoro, già dopo cinque anni dal conseguimento della laurea, sono molti di più gli uomini che riescono a trovare un impiego stabile con una remunerazione maggiore.
Tali differenze vengono avvalorate da ciò che emerge da rapporti come quello dell’Eurofound “Women men and working conditions in Europe”, secondo il quale le donne sono ancora relegate in ambiti professionali considerati tipicamente femminili (basti pensare all’assistenza, alla vendita al pubblico, ecc).
Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che ogni donna, in Italia, dedichi circa 36 ore settimanali ai lavori domestici contro le 14 degli uomini: questo contribuirebbe a far sì che il livello di soddisfazione di vita femminile non arrivi neanche alla sufficienza.
Eppure, se si confrontano i tassi di occupazione dei due sessi, si nota come quello maschile sia calato notevolmente negli anni della crisi, mentre quello femminile si sia mantenuto più o meno stabile. In realtà ciò è dovuto al fatto che la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro sia cresciuta ininterrottamente dal 1973 al 2004. Nel biennio 2007-2008 si è raggiunto il più basso tasso di disoccupazione femminile in Italia, meno dell’8%, e il più alto tasso di occupazione, circa il 47%.
Ciò è dovuto però principalmente alla scelta di numerose donne di passare da una condizione di ricerca attiva di lavoro a quella di inattività: dunque, vista la difficoltà in quei primi anni di crisi a trovare un impiego, molte hanno smesso di cercarlo. Tale fenomeno, che ha trovato ampia diffusione soprattutto nel meridione, si è poi esteso con il dilagare della crisi nel resto d’Italia.
È per questo che il numero di donne disoccupate ma in cerca di lavoro è rimasto piuttosto stabile mentre quello degli uomini è aumentato. Dal 2012 poi c’è stato un boom delle lavoratrici part-time (effetto “lavoratrice aggiuntiva”): rispetto agli uomini le donne firmano molti più contratti del genere, trovandosi sempre più spesso a ricoprire ruoli che richiedono titoli di studio inferiori a quelli che effettivamente possiedono. In Italia, secondo i dati dell’Eurostat, le lavoratrici part-time senza figli sono il 27,8% percentuale che sale al 42,1% per le mamme con almeno due bambini.
Questo andrebbe a spiegare anche la differenza salariale, nonostante, sempre consultando le stime diffuse dall’Eurostat, l’Italia non occupi una posizione poi così disastrosa nella classifica dei Paesi UE. Basti confrontare il nostro 6,5% con il 28,3% dell’Estonia, il 22,9% dell’Austria e il 22,1% della Repubblica Ceca.
In ogni caso è innegabile che le donne lavorino di più, ma in condizioni decisamente peggiori e per una paga più bassa. Il che è ancora troppo per poter parlare di parità di genere e per chiudere un occhio sulla discriminatoria tendenza a distinguere tra uomini e donne in un ambito nel quale bisognerebbe discernere soltanto tra lavoratori competenti e non.
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