Quando nacque ai suoi genitori venne detto che le possibilità di apprendimento sarebbero state scarse. I suoi non diedero ascolto ai dottori. “Quando ero piccolo – ricorda Pablo – mio padre e mia mamma più che consultare i medici dicevano loro quel che c’era da fare. I dottori dicevano:questo bambino non potrà imparare altro che le cose più semplici e i miei genitori non badavano a queste parole. Pensavano: tu occupati delle tonsille e noi ci occupiamo dell’educazione di nostro figlio. Mai hanno creduto che non potevo imparare, mai hanno creduto ai medici anche quando mi volevano bene. Pensavano che dovevo essere autonomo e mi hanno educato con questo obiettivo…Mi lasciavano andare solo sull’autobus, ad esempio. All’inizio avevano paura, quando ero piccolo, però si tenevano dentro i loro timori e vigilavano da lontano lasciando che prendessi l’autobus da solo. Tutti i genitori, mio fratello, mio zio, si nascondevano per spiarmi dietro un giornale, come detective. Se cadevano quattro gocce e chiedevo a mio padre di accompagnarmi in macchina lui mi diceva “Mettiti l’impermeabile e vai in autobus”.I miei sono stati forti”.
La direttrice della Fondazione catalana Sindrome di Down Katy-Trias darebbe il voto massimo ai genitori di Pablo. Sostiene che per gli infermi di sindrome di Down occorre un progetto di vita, un nuovo sguardo. Uno sguardo non rivolto esclusivamente alla sindrome, all’handicap ma anche alle capacità e potenzialità esistenti in ogni persona.”Se siamo convinti – sostiene – che le persone minusvalide hanno possibilità di crescere e di formare parte attiva della società queste persone sono capaci di rispondere al progetto, alle aspettative. Se non abbiamo un progetto per il loro futuro cresceranno senza speranza, senza dar valore ai progressi e si manterranno confinate al ruolo di eterni bambini”.
Da questo ruolo Pablo Pineda ha saputo sfuggire con determinazione e intelligenza anche se non si nasconde che la buona volontà può non essere sufficiente.”Come vi sono differenza fra le persone normali e non tutti arrivano all’università – dice – così esistono differenze tra noi. Ciascuno arriva dove arriva. Io sento una responsabilità molto grande”.Il giovane non nasconde che si è innamorato molte volte e sempre di belle ragazze.
Amori platonici.”Una volta ho perduto veramente la testa – rievoca – e la ragazza, che se ne era accorta e che già aveva un fidanzato, mi ha detto:”Pablo, siamo buoni amici, dobbiamo continuare ad esserlo”. E’ stata la cosa peggiore che poteva dirmi. E così mi sono reso conto che quello delle ragazze era un problema in più. Ho capito che la sindrome di Down mi avrebbe marchiato a vita. Che le ragazze non volevano innamorarsi di me perché ero malato. Eppure continuo a ribellarmi contro questo pensiero. Però so che una ragazza dovrebbe essere molto speciale. Non piaccio alle ragazze normali. Pensa che direbbe un padre quando si rendesse conto che sua figlia esce con un fidanzato con sindrome di Down”.
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