“Non nascondiamolo: il sistema educativo italiano, specie quello di livello più elevato, è inadeguato rispetto a quello di altri Paesi”.
“Inadeguato negli skill che produce e nei rendimenti”. A dirlo è stato il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan: inaugurando il primo distretto Fintech italiano, il 26 settembre, il titolare del Mef ha sottolineato a chiare lettere che “quello che il Paese deve fare è produrre capitale umano migliore”.
“C’è un’ondata tecnologica che ci sta attraversando e la prima strategia per affrontarla – ha sottolineato Padoan – è un sistema di produzione di capitale umano che funzioni meglio, significa Università e scuola”.
Sin qui, nulla da ridire. La sferzata di Pier Carlo Padoan è confutata da recenti studi internazionali, che collocano l’Italia molto indietro – rispetto agli altri Paesi moderni – sul fronte degli investimenti per la formazione pubblica rispetto al Pil: l’Italia, infatti, è quasi ultima in Europa, con Paesi, come la Germania, che spendono quasi il doppio.
Leggendo i i numeri messi a confronto da Eurostat, solo poche settimane fa, a livello assoluto, l’Italia, nel 2015, risulta aver speso complessivamente per le scuole materne, primarie, medie, secondarie, per le università, la formazione non universitaria, sussidi e finanziamenti alla ricerca, 65,1 miliardi di euro. Contro i 119,1 della Francia e soprattutto i 127,3 della Germania.
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I risultati di questa politica, poco propensa ad investire a favore della cultura delle nuove generazioni, sono evidenti: numero di alunni per classe sempre più alto, sebbene il tasso di natalità sia ormai sceso pure tra gli alunni di origine straniera; organici di diritto concessi, con riduzioni corpose, solo dopo estenuanti braccio di ferro col Miur; cattedre di sostegno con ancora 40mila posti in deroga; fondi d’istituto dimezzati rispetto al 2011; stipendi ancora bloccati dopo nove anni e con la prospettiva di essere innalzati di appena 50 euro netti mensili.
Anche a livello universitario, c’è poco da ridere; borse di studio rivolte solo ad una porzione minima di studenti; tasse di iscrizione, per gli studenti, praticamente raddoppiate in pochi anni, anche per la frequenza degli atenei pubblici; scatti stipendiali dei professori bloccati; fondi alle università sempre più assottigliati.
Ora, viene da chiedersi come mai Padoan si lamenti, da una parte, della inadeguatezza del sistema educativo italiano, sia a livello scolastico che universitario; dall’altra, però, attraverso il dicastero da lui diretto, gli sottrae continuamente risorse, tirando su paletti e ponendo freni di ogni tipo, allungando anche a dismisura i tempi di approvazione (vale per tutti il concorso per dirigenti scolastici, il cui bando guarda caso è fermo ora al Mef).
Le stesse manovre di spending review sulla scuola pubblica, come la decisione di non nominare (tranne rari casi) il docente sostituto per il primo giorno di assenza del titolare (per i primi sette giorni per alcune categorie di Ata), appaiono in antitesi con le parole del ministro dell’Economia.
Anche sulla gestione del bonus di aggiornamento da 500 euro annui, previsto dalla Legge 107/15, rimane forte il sospetto che ci sia lo “zampino” del ministero dell’Economia nella esclusione di diverse categorie, come gli educatori, gli Ata e i precari storici.
Pure ignorare le richieste pressanti dei docenti, costretti dalla riforma Fornero e dai successivi provvedimenti ad andare in pensione non prima di 68 anni, non è sembrata una operazione in linea con chi vuole elevare il livello di competenze dei nostri studenti.
Ci fermiamo qui. L’incongruenza è chiara. Ognuno tragga le sue conclusioni.
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