L’articolo ha un sapore molto nostalgico. La Mastrocola ricorda: “Quando era una giovane insegnante, spesso i presidi mi convocavano per parlare di letteratura. Magari scrivevano essi stessi saggi di critica letteraria, Poi s’informavano del programma, a che punto ero giunta, e se avrei fatto Pasolini o il Gruppo 63. A volte entravano in classe a sorpresa e dicevano: Mi permette di assistere a una sua lezione? E si sedevano all’ultimo banco, buoni, attenti. A volte ci chiedevano, in base alla materia che insegnavamo, di presentare un libro a scuola di pomeriggio di scienze, di filosofia, di letteratura.”
Qual era il risultato della presenza di tale super preside? “Mi sentivo sotto pressione? Beh, certamente sì. Ma mi sentivo anche coinvolta in un ambito più grande, che chiamerei genericamente culturale. Inoltre, l’idea di essere osservata mi faceva bene, mi spronava a far meglio. Per esempio passavo i pomeriggi a preparare bene le lezioni.”
Ma il preside non valutava. La parola sbagliata è proprio valutazione. “Se ci sentiamo valutati, cioè misurati, se ci viene attribuito un punteggio, reagiamo male. Ci sentiamo come una pezza di stoffa, che viene valutata a metri. O un sacco di patate, che va pesato”. Purtroppo la parola misurazione è entrata pesantemente non solo nella scuola, ma in tutti gli ambiti lavorativi della nostra vita e l’ha, secondo me, notevolmente peggiorata: intristita, direi.”
Valutazione equivale e a misurazione. Ma non tutto può essere misurato. Forse nemmeno gli alunni: “Dovremmo smetterla di dare voti, di promuovere e bocciare e rimandare (o meglio, sospendere il giudizio a settembre). Dovremmo smetterla di dare valore al titolo di studio.Dovremmo giudicare con lo sguardo e con le parole di lode o di rimprovero; dovremmo smettere di aver paura delle parole e adoperarle con coraggio, perché sono il nostro mezzo migliore, e distintivo, di entrare in relazione con gli altri. Basterebbe usare sguardi e parole, perché i ragazzi avessero la sensazione che la nostra attenzione è su di loro: questo li spronerebbe a far meglio. Invece così sentono incombere solo voti, punteggi, valutazioni: numeri che essi possono benissimo dribblare, falsificare, ignorare…Tanto vedono che il nostro sguardo è rivolto altrove.”
Conclude la Mastrocola: “Mi piacerebbe avere un capo. Lo troverei normale. Mi piacerebbe che non si chiamasse, come nelle aziende, dirigente. Che non fosse solo un burocrate che annota le presenze extra, perlopiù di puro volontariato; che non ci redarguisse solo se non abbiamo compilato griglie o fatto il corso on line sulla sicurezza; che non ci convocasse solo in presenza di qualche ricorso o per la solita protesta del genitore che preme per la promozione del suo rampollo. La scuola è molto di più, e non si risolve in pura organizzazione o abilità gestionale. Mi dispiace vederla così abbassata e svilita.”
Elogio della severità, dell’autoritarismo? Forse. Ma avere un capo che non misura e valuta, ma osserva e guida e giudica l’operato è “solcare mari aperti verso una direzione ben precisa. Il contrario è stare tutti immersi in una palude stagna (quale mi sembra oggi la scuola) e lì sguazzare e mandar spruzzi a caso, a seconda di come a ciascuno viene bene nel momento. A lungo andare, ci si sente inutili, e sperduti nella nebbia.”
Dopo queste riflessioni, aleggia nell’aria un interrogativo finale: quanti dei presidi attuali, pensando anche alle modalità del loro reclutamento, possono essere figure di riferimento culturali, guide sagge che ci salvino dalla gran deriva dell’istruzione?
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