“I giovani non hanno l’esperienza, ma il fiuto della realtà e della verità”. Ed è questo fiuto, per ripetere la battuta di Papa Francesco, a dire che i nostri giovani, nonostante, a volte, certe esagerazioni, sono migliori di come di solito vengono dipinti.
E ne visti tanti di ragazze e ragazzi nei decenni di docente prima e di preside poi in diverse scuole superiori. Per cui mi piace ribadire una considerazione positiva, al di là di alcune stramberie tipiche dell’età. Le stesse che ricordiamo volentieri anche noi, quando eravamo alla loro età, abbiamo commesso. L’adolescenza oggi è più complicata rispetto alle generazioni passato, perché non ci sono più punti fermi. Non solo sul piano sociale, del lavoro, ma anche a livello di convinzioni, di pensiero, di prospettive sul futuro.
E questo li porta a concentrarsi sul presente, mettendo tra parentesi (“ci penserò”) la domanda sul futuro possibile. Gli stessi legami affettivi, ad esempio, non possono più pretendere quel “forever” che era scontato nei decenni passati. Per cui si tende a vivere per l’oggi, e per il domani “chi vivrà vedrà”. Lo stesso per il lavoro, con mille opportunità, ma in un contesto generale di fragilità che porta, altro esempio, a cambiare di frequente anche l’occupazione.
Il loro tempo, insomma, è l’età dei frammenti, e del bisogno che sentono di pensare ad altro, per non pensare ad una libertà che intuiscono è una parola vuota senza la coniugazione con la capacità di assunzione di responsabilità. Perché libertà fa rima con responsabilità, non con il semplice fare ciò che passa per la testa, cioè col libero arbitrio.
I due anni di pandemia prima, col grande bisogno relazionale messo in crisi, e ora con una guerra che vediamo ogni giorno riprodotta a livello di immagini, ci dicono che non solo per il domani, ma anche per l’oggi, ad essere sinceri, “non v’è certezza”. Eppure sono questi nostri adolescenti la nostra speranza di futuro. E dobbiamo guardarli con simpatia, sapendo, forse, che il vero problema per loro siamo noi adulti. Nel senso che i giovani hanno bisogno di incontrare autorevolezza, non autorità. E quando c’è autorevolezza, in famiglia, a scuola, nel lavoro, in politica, nella società, loro non si tirano indietro. Si danno. Ma hanno bisogno di avere punti di riferimento credibili, seri.
Dobbiamo dunque prestare attenzione a questa che è definita la Next Generation, che al di là dei buoni propositi corre il rischio di diventare Lost Generation, cioè i figli perduti, come quelli dell’isola di Peter Pan.
Perché se non trovano adulti che siano coerenti, che dicano anche alcune verità importanti, rischiano di non sapere da che parte girare lo sguardo. Con forme di riscontro non positive che già sono emerse durante i due anni di pandemia: si isolano, rischiano di deprimersi, di arrendersi (come i famosi NEET), senza più capacità di “mordere”, mi viene da dire, il mondo. Per cambiarlo, per migliorarlo.
I dati demografici, infine, ci stanno dicendo che sono questi giovani che dovranno prendersi cura di una società fatta da adulti-anziani, con le conseguenze che già sappiamo. Aiutiamoli, dunque, senza giudicarli in modo sommario per alcune esagerazioni. Per farli crescere in modo equilibrato, aperti ad una formazione in itinere che li dovrà accompagnare per tutta la vita, non solo nel mondo del lavoro, ma anche a livello sociale, affettivo. Mi verrebbe da aggiungere: anche a livello spirituale, se il termine non fosse così difficile da comprendere.
Sapendo che il digitale ha schiacciato tutto sul presente, e che le troppe informazioni che rimbalzano sul cellulare senza un filo conduttore che li aiuti e ci aiuti a mediare tra i mille rigagnoli delle news, rischiano di destabilizzare la nostra e la loro percezione del presente e del futuro possibile. Ci sarebbe un grande lavoro da fare, per tutti, sapendo il futuro che ci attende. Pensando poi a questi nostri ragazzi e ragazze, si tratta, metaforicamente, di decidere, se fare come le cicale oppure come le formiche.
E nel calarsi in uno o nell’altro abito sta il confine strategico tra Next e Lost Generation.
Pensando agli ultimi due anni, per chiudere, mi vengono in mente due riferimenti. Le parole di Italo Calvino: “Un Paese che demolisce l’istruzione è governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno tutto da perdere”.
E la Scuola di don Milani, che da Barbiana ribadiva la vera posta in gioco ai suoi alunni dell’ultimo banco sociale: ogni parola che non impari oggi, è un calcio in culo domani. Un Paese che non è cioè capace di dire alcune semplici verità non è un Paese per giovani. Non è nemmeno un Paese coerente con i propri valori fondamentali. Si condanna ad essere, tristemente, un Paese-senza.
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