“Siamo l’unico settore che non ha bisogno delle quote rosa ma delle quote blu. Solo un insegnante su cinque è maschio”. Lo disse a suo tempo, nel 2006, l’allora ministro della Pubblica istruzione, Beppe Fioroni, riprendendo i dati pubblicati da una ricerca seria che aveva dato le statistiche in percentuale: solo il 20% è maschio. Oggi ancora meno e le docenti donne sarebbero (ma non si conosce la fonte), distribuite in tutti i livelli o gli ordini di scuola, 83 su 100.
All’epoca i conti erano i seguenti: “Nelle scuole dell’infanzia c’è un uomo ogni 200 insegnanti in servizio. Nella primaria i maestri uomini sono (quasi) 5 ogni 100. Nella secondaria di I grado (ex-scuola media) i docenti uomini sono (quasi) 24 su 100. Negli istituti superiori gli insegnanti uomini sono (quasi) 40 su 100″.
La via dell’insegnamento in ogni caso è stata da molti decenni più lastricata di rosa che di blu e ora pure quella della dirigenza, mentre si va diffondendo l’imbarazzo dei pochi docenti uomini nei consigli di classe a maggioranza femminile.
Scomparsa quasi del tutto, dati alla mano, la figura del maestro, sta lentamente scomparendo anche l’altra del professore che aveva scorrazzato fino a un trentennio fa per le aule delle scuole secondarie superiori soprattutto, mentre si affaccia la reale probabilità che il contagio della presenza femminile si possa diffondere anche in ambito universitario dove la scalata delle donne è sempre più imponente.
Sembrava resistere il mezzogiorno, come sempre, ma da qualche tempo a questa parte anch’esso si va alleggerendo di docenti maschi, benchè la fuga maschile dalla scuola non sembra un problema da prendere sottogamba, anzi.
Infatti, una presenza equilibrata di insegnanti di ambo i sessi nella scuola pubblica è tanto indispensabile quanto auspicabile e per comprensibili motivi non certamente di natura didattica, tanto da arrivare a sostenere di riservare agli uomini per legge una parte delle cattedre, una sorta di quota blu insomma.
La proposta nascerebbe infatti dal parere di esperti psicopedagogisti secondo i quali “la femminilizzazione dell’insegnamento può avere conseguenze distorcenti nella costruzione, tra i giovani, dell’immagine dei ruoli maschili e femminili all’interno della società”, così come accade in famiglia, ci pare di capire.
Il problema della scarsa presenza maschile a scuola semmai è sempre lo stesso e cioè di rendere appetibile l’insegnamento anche agli uomini, nel senso di creare le condizioni affinché questo lavoro dia adeguatezza remunerativa e soprattutto quel prestigio sociale di cui tutti parlano ma che finora non si è riuscito a creare.
C’è la sensazione diffusa che darsi all’insegnamento sia una sorta di accettazione volontaria del fallimento professionale dell’uomo, mentre per le donne, sia la flessibilità di orario e sia la stessa funzione possano concederle più spazi di manovra in ambito lavorativo e familiare, dedicandosi con uguale profitto sia alla famiglia e sia a questa gratificante professione educativa che diventa, forse, un prolungamento del mitico focolare.
In altre parole ciò che sostiene la preside su questo portale: “oggi la scuola si limita fotografare l’esistente ripercorrendo esattamente le diseguaglianze che si ritrovano nella struttura economico sociale del paese, a partire dalle disuguaglianze di genere” e che “relega la professione di insegnante a un lavoretto di accudimento tipico delle donne e mal pagato che però non è l’introito fondamentale della famiglia“, è del tutto condivisibile.
Tuttavia, di fronte a questa ritirata strategica dell’insegnante maschio dalla scuola sarebbe pure bene che gli esperti si interrogassero, e non solo gli psicopedagogisti, dal momento che il motivo sembra ancora più profondo, anche se non nascosto del tutto: basta trovarlo
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