Categorie: Attualità

Parla l’ex ‘bullo’ ora prof: ascoltateli!

“A dodici-tredici anni, alle medie, avevo preso di mira Mirko: troppo secchione, troppo “leccapiedi”, troppo servile con i prof.”, racconta l’ex bullo a Il Fatto Quotidiano.

“Quel ragazzino mi infastidiva per quel modo di fare un po’ saccente, da primo della classe. Feci alleanza con altri compagni e gli smontai pezzo per pezzo la bicicletta. Non ricordo bene il fatto ma ho ben presente la reazione di Mirko e dei suoi genitori: il compagno di classe per anni non mi rivolse la parola e i suoi genitori persino in età adulta faticarono a salutarmi. Nessuno mi scoprì. Non subii alcuna punizione a scuola e tantomeno a casa”.

 

I bulli in definitiva, spiega l’ex bullo ormai adulto e docente, “sono anche loro nostri figli come quella ragazza di Pordenone. Fragili come lei o forse in maniera diversa. Sono quelli che non amano la nostra scuola, soprattutto le “medie”, anello debole del sistema dell’istruzione. Capitò anche a me: in quella scuola mi sentivo inascoltato, demotivato, non valutato. Sono quelli che non trovano un prof che li ascolta. Sono quei ragazzi che bocciamo, cataloghiamo come “svogliati”, “fannulloni”, “disagiati”.

 

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“Qualche anno fa sui banchi di scuola incontrai Simone. A nove anni chiedeva soldi in cambio di figurine sequestrate al compagno. Non apriva un libro. A casa in una sola stanza aveva due televisioni: una per le partite, una per il “Grande Fratello”. Non lo considerai un “bullo”. Non chiamai uno psicologo. Lo misi in cattedra, al posto mio. Io facevo lezione dal suo banco e lui stava in cattedra. Arrivò alla fine della scuola primaria che iniziò persino ad aprire il libro. Alle medie l’hanno “perso”. Oggi, 17 anni, lo sento ancora: è solo, non ha amici, non va a scuola. Così è stato per Davide, etichettato “bullo” da tutti i genitori. Ricordo ancora la mamma di una mia allieva: “Mia figlia deve venire a scuola felice. Non mi interessa il disagio della famiglia di quel ragazzo”. Quante chiacchierate nei corridoi con Davide, quanti “patti” fatti tra me, lui e papà; quante volte ho chiuso il libro di geografia per riflettere insieme su quanto era accaduto”.

“Abbiamo bisogno di maestri e professori che ascoltano- prosegue l’articolo sul Fatto Quotidiano- che si affiancano a questi ragazzi, che non usano il verbo “bocciare”. Abbiamo la necessità di tornare a fare educazione civica, alla cittadinanza, non di scrivere il decalogo del comportamento: “Si alza la mano per parlare”; “Si portano a scuola i quaderni”; “Ci si ascolta”. I ragazzi ci chiedono solo una cosa: ascolto. Dobbiamo imparare a parlare un po’ meno per raccogliere le loro storie. Quelle dette e non dette. La ragazza di Pordenone ha diritto alla felicità allo stesso modo di quei ragazzi che hanno bisogno di capire quello che hanno fatto. Non sono “bulli”, sono ragazzi”.

E a noi viene in mente il ragazzino del romanzo “I ragazzi della via Pal” di Ferenc Molnàr e tutta quella letteratura per i giovani dove ciò che oggi chiamiamo bullismo prima non aveva nome, mentre Gaetano Mosca per domare la famosa V^ C, dominata dal bullo di turno, si attrezzò anche lui di elastico e carta.

Pasquale Almirante

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