Da 30 anni i docenti si sentono ripetere che primo diritto del discente è il “successo formativo”; e che primo dovere del docente è favorirlo in tutti i modi. Eppure una settimana fa la Ministra dell’Istruzione ci ha fatto sapere che — proprio nell’anno della “DaD” (“Didattica Distanza”) — il vento è cambiato. Riferendo alla Camera, Lucia Azzolina ha detto: «Resta ferma la possibilità di non ammettere all’anno successivo studentesse e studenti con un quadro carente fin dal primo periodo scolastico».
Come può essere? Come si può dare per scontato che un alunno, il quale magari attraverso la “DaD” non ha recuperato gravi lacune pregresse, non le avrebbe invece recuperate con l’attività didattica in presenza? Non ci si rende conto che, in questo modo, il Governo sta scaricando sui docenti le responsabilità di uno Stato che — non essendo in grado di garantire il diritto alla salute a causa di 30 anni di tagli alla Sanità pubblica — non ha garantito altri diritti elementari, ivi compreso il diritto allo studio?
Non basta: «Non sarà ‘6 politico’», ha aggiunto Azzolina. «Le insufficienze compariranno, infatti, nel documento di valutazione. E per chi è ammesso alla classe successiva con votazioni inferiori a 6 decimi o, comunque, con livelli di apprendimento non consolidati sarà predisposto dai docenti un piano individualizzato per recuperare, nella prima parte di settembre, quanto non è stato appreso». Ovvero: imparare in 10 giorni di settembre, a 40 gradi, quanto si sarebbe dovuto apprendere in 100 giorni di primavera?
Pioveranno i ricorsi: forse, per la prima volta, motivati e giusti. Come si può sinceramente affermare che la “DaD” abbia efficacemente sostituito la Scuola tradizionale? Come sostenere che la relazione educativa e pedagogica tra docente e discente possa fare a meno del tempo disteso delle lezioni e del guardarsi negli occhi? Come trascurare l’importanza del controllo (e del timore del controllo), della battuta di spirito, e persino dello scontro che a volte può verificarsi (tappa necessaria nella crescita dell’adolescente)?
Senza relazione in presenza, la didattica non è più tale. Impossibile l’azione dell’insegnante: quella di accendere nel discente il fuoco della conoscenza; senza riempirlo di nozioni che con la “sophia” poco hanno a che fare.
Dopo tre mesi di simil-Scuola denominata “DaD”, gli allievi sono a volte, per forza di cose, divenuti serbatoi in cui versare nozioni attraverso filmati e letture autonome; altri sono diventati fini esecutori di test telematici, che li hanno sicuramente preparati alla competenza minimale di risolutori di quiz Invalsi. E ciò è accaduto malgrado la fantastica creatività di docenti preparati e validi (nell’aula); perché gli sforzi più encomiabili non possono rimpiazzare la relazione corporea e fisica tra insegnante e allievo, prerequisito indispensabile di quanto si può a buon diritto considerare didattica, e che ha come fine lo sviluppo del pensiero critico e autonomo dell’alunno.
Lo testimonia la stanchezza dei nostri ragazzi, l’abulia di molti, la tristezza dei più. Parecchi si sono convinti che la Scuola sia un rito vuoto, ove si può imbrogliare docenti che sanno di essere imbrogliati, ma che si accontentano di avere i documenti in regola, di poter dimostrare di aver “interrogato”, di essersi fatti inviare “prove scritte” fatte in casa, di averle regolarmente “corrette” e “valutate”.
Perché, allora, tutta questa draconiana insistenza sulla possibilità di “bocciare” e “rimandare” (come si diceva un tempo) proprio quest’anno, quasi nulla fosse? Sbaglierebbe chi malignasse che dietro cotanta insistenza si celi il malcelato progetto di far passare la “DaD” come attività ordinaria per la “scuola del futuro”?
Parafrasando il titolo di un celebre libro di Francesco Filippi, possiamo affermare che «la “DaD” ha fatto anche cose buone»: non lo si può negare. Soprattutto, ha permesso ai docenti di non perdere il dialogo e il contatto umano coi propri allievi. Però ha anche mostrato tutti i propri limiti, che sono quelli di qualsiasi surrogato. Non può e non deve sostituire la didattica vera, che è fatta di contatto umano immediato, di stimolo alle emozioni, di comprensione attraverso l’empatia delle persone (docenti e discenti) che scoprono insieme la realtà. Con buona pace dei “Paperoni” del web e dell’industria elettronica, che grazie alla quarantena mondiale hanno incrementato i propri “fantastiliardari” profitti.
Inutile poi ricordare il gran numero di discenti esclusi di fatto dalla “DaD”: perché la loro famiglia non può permettersi la connessione (16,4%) o gli apparecchi elettronici (24,5%), o perché in famiglia c’è un solo dispositivo per più familiari (33,5%), o perché la connessione non è stabile né veloce (48,5%). Malgrado i famosi 85 milioni.
E la statistica non tiene conto degli esclusi per immaturità o per deprivazione culturale di base (ancorché dotati di costosi “device”): quelli che — come tutti i ragazzi da quando esiste l’umanità — hanno bisogno comunque di un adulto che li guidi, affettivamente, emotivamente, empaticamente; non di un computer che surroghi l’adulto. Per quanto ancora fingeremo di non saperlo, noi adulti?
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