Con Raffaele Iosa, ex ispettore scolastico, esperto di inclusione e disabilità e profondo conoscitore del mondo russo e ucraino parliamo dell’ultima nota ministeriale in materia di accoglienza degli alunni ucraini.
Fin dall’inizio della guerra ti sei occupato del problema dei profughi ucraini, fornendo anche riflessioni e suggerimenti importanti. Cosa ne pensi della nota a firma di Versari uscita il 24 marzo?
Ne penso bene, d’altronde la nota è accompagnata da un testo di “spunti” psico-pedagogici di riflessione ripresi dai diversi commenti usciti finora, tra i quali trovo analogie con i miei scritti di questo mese.
Tu hai parlato di pedagogia del ritorno, adesso il termine è stato ripreso nella nota di Versari. Ci spieghi bene di cosa si tratta?
I ragazzi ucraini (e le loro madri) che stanno arrivano da noi hanno un grande desiderio del ritorno come meta intima della loro fuga; tenere conto di questo dato è assolutamente centrale per la nostra azione pedagogica e didattica nell’emergenza attuale e anche più avanti.
Ogni mamma ucraina è scappata con i suoi figli portando in borsetta tre cose che non può perdere: le chiavi di casa, una foto di tutta la famiglia insieme quando la vita andava, un cellulare per sentire il marito/compagno padre dei bambini rimasto laggiù per combattere. Nell’accoglierli dobbiamo sapere che a qualche bambino o ragazzo arriverà una telefonata tragica o non arriverà più la telefonata. E per quest’uomo/padre rimasto laggiù neppure un funerale sarà possibile. Dobbiamo essere consapevoli della loro condizione esistenziale. Nella disperazione della loro fuga li fa sopravvivere la speranza di salvarsi per il ritorno a casa.
Cosa ti piace di più della nota ministeriale?
E’ una nota sobria, essenziale, riflessiva; non fornisce “istruzioni per l’uso” né procedimenti amministrativi, né impone didattiche come il Ministero in questi 20 anni ci ha abituati esondando con ukaze anti-autonomia. E’ consona alla gravità di questo evento.
La penna che ha scritto sembra condividere la nostra stessa sofferenza per questi bambini e ragazzi che arrivano scappando dalla guerra. Si tratta di “spunti”, di “riflessioni” e di “materiali” per condividere con gli insegnanti una visione dell’evento traumatico della fuga e il senso della nostra comunità educativa. E ci sollecita a comprendere che siamo davanti ad un’emigrazione del tutto diversa da quella dei migranti economici. Assomiglia per alcuni versi, e per capirci, a quella dei bambini siriani o afgani, verso cui forse (bisogna ammetterlo) abbiamo avuto meno sensibilità.
La circolare parla di tre fasi; cosa significa?
La prima, chiamata del tempo lento dell’accoglienza è quella di questi giorni e del loro inserimento. L’idea della lentezza è sacrosanta, parte dalla condizione umana dell’altro, sa attendere, non anticipa, non fa domande invadenti, apre alla socializzazione, offre le prime competenze di italiano, decanta con mitezza e rispetto i traumi, e soprattutto fa il possibile per dare continuità ai percorsi di istruzione interrotto. Elemento questo per me decisivo per garantir loro la speranza del ritorno, in qualsiasi momento verrà.
Finita la scuola arriverà l’estate…
E’ la seconda fase, riguarda l’estate e cita la relazione tra la scuola e gli enti del territorio per attivare iniziative sociali, sportive, del tempo libero ricche di opportunità, secondo la logica dei patti di comunità già sperimentati nel 2021 ai tempi del COVID. Mi permetto di proporre, a chi serve, di scaricare (è gratis) l’e-book “estate educativa” che ho scritto con Massimo Nutini.
E con il nuovo anno scolastico cosa succederà?
Si partirà con la terza fase, detta di integrazione scolastica, sulla quale la nota Versari rimane giustamente generica. Oggi non abbiamo alcuna certezza di come andrà a finire in Ucraina. Ci penseremo con calma nei prossimi mesi, che però non sono così lontani. Quanti resteranno? Quanto resteranno? Possiamo solo fare ipotesi di una possibile integrazione e rifletterci.
Intanto in altri Paesi si stanno già attrezzando
Il modello più secco e arido è quello che pare stiano adottando la Romania e la Polonia (disabituate ai processi inclusivi) che sembrano prevedere una specie di provvisoria scuola ucraina all’estero. L’unica attenuante a questa soluzione è che in quei due paesi i bambini profughi sono di gran lunga più che da noi. Col rischio però di una pedagogia dei separati in casa.
Capisco che questo modello non ti piace; ma tu cosa proponi?
A me piace pensare per l’anno scolastico prossimo (anche per la tradizione italiana) una specie di pedagogia del binario. Mi spiego: inclusione nelle classi italiane con il mantenimento parallelo (il binario) della Dad dall’Ucraina o la presenza di un insegnante ucraino come supporto in rete e le altre attività con i compagni italiani. Un percorso didattico meticcio dove i due binari corrono parallelamente, anzi uno può insegnare qualcosa all’altro. E’ una suggestione pedagogica inclusiva da approfondire.
Hai detto e scritto più volte che non è il caso di accogliere i piccoli profughi ucraini con canti, feste e sbandieramenti. E quando se ne andranno, come dovremo comportarci?
La sobrietà deve essere la regola base, dobbiamo ispirarci ad una pedagogia che arricchisca tutti (loro e noi); si farà festa quando loro partiranno, avremo amici per sempre perché nel loro momento più tragico siamo stati vicini senza invadenza, senza scippare la lingua, senza pietismi. Ci diremo grazie reciprocamente, perché “ci siamo imparati” l’un l’altro.
Hai notizie di cosa sta accadendo nelle scuole ucraine in questa fase?
La notizia è delle ultime ore, in un oblast a sud di Kyev hanno riaperto le scuole. L’hanno fatto come possibile, con gli insegnanti rimasti lì, se le scuole sono accessibili, e se non possibile hanno rinforzato la Dad. Grande gioia di bambini e ragazzi. Per un vecchio pedagogo come me la notizia è commovente: la scuola come ritorno alla vita e speranza, come comunità che si reincontra. Strano paese l’Ucraina che neppure sotto le bombe non molla e i suoi piccoli.
Ma anche un po’ sorrido di questa decisione, per un aspetto tipico dei popoli del burian, nelle terre dove i venti artici del sybir soffiano duro in inverno portando temperature polari.
Laggiu nei tempi “normali” se la temperatura va sotto i -18 gradi, con neve a terra, le scuole si chiudono. E i bambini ucraini (come i vicini del burian) sperano che accada per avere un giorno di vacanza. Tutto il mondo bambino è paese: anche i nostri aspettano la neve, ma quelli del burian ci prendono in giro perché a noi bastano due centimetri.
La circolare di Versari termina con un passaggio inatteso; parla delle ferite del corpo, visibili, e di quelle che non si vedono ma che spesso sono le peggiori. “La scuola – si legge nel documento – è luogo in cui, attraverso molteplici forme di insegnamento e di relazioni educative, si crescono nuove generazioni e, quando purtroppo occorre, si curano le ferite dell’anima. Non con la medicina, non con la terapia, ma con l’umanità, utilizzando gli strumenti della pedagogia e della didattica..”
Cosa ne pensi?
E’ un pensiero straordinario: la pedagogia e la didattica sono umanità, e le ferite che non si vedono a occhio nudo si curano con l’anima della pedagogia, non con la medicina, non con la terapia. Torna l’I CARE donmilaniano e l’orgoglio della pedagogia. Messaggio chiaro e in netta controtendenza dopo un ventennio di frenetica invenzione di sigle, codici, pdp, dispensativi e compensativi con l’esplosione della medicalizzazione dell’anima dei nostri bambini e ragazzi inquieti, incerti, svogliati, complicati.
Chi mi conosce sa quanto mi sono battuto contro la medicalizzazione della scuola. Ci volevano i bambini ucraini da noi e una guerra per capire quanto è pericolosa quella strada.
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