L’intuizione di questa impostazione didattica è relativamente recente, e si è avviata in funzione del recupero della dispersione scolastica e della devianza, nel momento in cui i termini del dialogo sono sembrati più accessibili e comprensibili all’interno di un gruppo consolidato e riconosciuto, piuttosto che imposto dall’alto con linguaggi e comportamenti spesso distanti dai giovani e col rischio di essere percepiti con sospetto, diffidenza e disinteresse.
Si tratterebbe quindi di “educare” gli educatori, di “formare” i formatori e poi inserirli nel gruppo che si vuole “educare”, o almeno che si vuole “stimolare” a un dialogo costruttivo, ma sempre fra “pari”
La novità consiste allora nel tentativo di coinvolgere gli studenti in un processo che miri soprattutto a motivarne l’apprendimento, avviando un nuovo tipo di comunicazione, basato sulle esperienze fatte da un gruppo di alunni i quali a loro volta porterebbero questa stessa esperienza all’interno del gruppo-classe, ma con parole e linguaggi loro, facilmente recepibili dunque dai compagni.
La “peer education” funzionerebbe pure se calibrata sul fenomeno del fallimento scolastico, di fronte al quale molti adolescenti reagiscono con meno grinta, con meno voglia di superare la china, oppure si lasciano andare o cercano il successo in ambiti pericolosi, come la devianza minorile.
Faremmo certamente una forzatura se ci riferissimo allo stato calamitoso (pistole invece di libri nello zaino) di molte scuole americane e ora anche italiane, ma che il rapporto adulto-adolescente sia in crisi appare sempre più evidente, come quell’altro docente-discente, mentre alla scuola vengono assegnati i compiti più vari: educazione alla legalità, alla salute, al sesso, all’ecologia, stradale e che hanno l’ambizione di essere in contrasto coi modelli che invece la società offre: scontri e baruffe tra le Istituzioni, inquinamento, disoccupazione, malaffare, corruzione, ecc.
Ed ecco allora che la funzione docente viene assunta da un alunno che abbia seguito un precedente corso di formazione, per esempio, sulle strategie di comunicazione, sul controllo dei conflitti, sulla programmazione di attività di varia natura.
Questa stessa esperienza, così come è stata vissuta, l’alunno-docente la riporta in classe e alla classe la narra e alla classe la fa rivivere, nella reale possibilità che la diffidenza o la noia o il disinteresse lascino il posto al dialogo, allo scambio di idee e alla curiosità verso l’apprendimento.
Tuttavia ha sicuramente molte incognite l’educazione fra pari, sul tipo della “credibilità e autorevolezza” che l’alunno-docente possa avere fra i compagni, o sul tipo di comunicazione che si possa istaurare in classe, considerando che esistono già “linguaggi settoriali” fra gruppi o fra bande o fra quartieri.
In ogni caso, anche in caso di fallimento, rimane un dato confortante, anche se poco consolatorio, quello cioè di avere “formato” almeno i formatori, quel gruppo di “docenti-alunni” la cui esperienza comunque rimarrebbe come patrimonio formativo importante.
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