Nel 2018 l’uscita anticipata dei docenti dal mondo del lavoro, 63 anni anziché 66 anni e 7 mesi, rimarrà riservata ad una nicchia: per andare in pensione con circa tre anni e mezzo di anticipo, senza penalizzazioni e con i costi quasi totalmente a carico dello Stato, bisognerà ancora sperare di rientrare nell’APe Social. Quindi, avere almeno 63 anni di età e 36 anni di contributi se si rientra nelle 15 mansioni gravose, tra cui le educatrici e i maestri della scuola dell’infanzia (come è già accaduto per qualche migliaia nel 2017). Oppure, sempre avendo compiuto almeno 63 anni di età, trovarsi nella condizione di disoccupazione ma avendo accumulato non meno di 30 anni di contributi. Alla deroga potranno accedere poi i lavoratori che assistono parenti di primo grado con disabilità grave oppure i dipendenti portatori di invalidità pari almeno al 74%.
Sempre all’interno dell’Ape Social, alle mamme lavoratrici viene riconosciuto uno ‘sconto’ sull’età per andare in pensione pari ad un anno per ogni figlio, ma non oltre i due anni di anticipo.
Il 2018, forse già nelle prime settimane, porterà quell’Ape volontaria annunciata maggio, che si basa sulla sottoscrizione di una convenzione con banche e assicurazioni che anticipano i soldi al pensionando, per poi riscuoterli trattenendoli dall’assegno di quiescenza, con gli interessi, nel corso di 20 anni che partono dalla data di pensionamento indicata dalla riforma Fornero. In base a delle prime stime, si tratta di restituire qualche centinaio di euro al mese: considerando che si tratta di pensioni già poco floride, è probabile che non siano in molti ad accettare la possibilità dell’Ape volontaria.
Se non si rientra in questa nicchia di lavoratori, in tutto qualche decina di migliaia, non c’è scampo. Anche le donne, ora pure quelle che operano nei settori privati e le autonome, nel 2018 potranno accedere alla pensione di “vecchiaia” solo a 67 anni e 7 mesi.
Con l’età innalzata, rispetto due lustri fa, di circa 10 anni. Non va così in Europa. Dove l’innalzamento è stato meno drastico: in Francia (oggi si lascia a soli 60-62 anni) e Danimarca il passaggio ai 67 anni di età, da noi destinato a concretizzarsi tra un anno esatto, è stato programmato dopo il 2022, in Spagna nel 2027, nel Regno Unito nel 2028 e in Germania nel 2030, in Croazia solo nel 2038.
Ne consegue che, in Italia, il risultato dell’abbinamento riforma Fornero con l’innalzamento progressivo dell’aspettativa di vita dei suoi cittadini, ha prodotto le soglie di accesso più alte d’Europa. Tra l’altro, se non si interviene con una legge di riforma, sono destinate a salire ulteriormente con il passare del tempo avvicinandosi a quota 70 anni.
Solo qualche settimana fa, la Uil ha calcolato che l’età di accesso alla pensione risulta ormai superiore di quasi 3 anni alla media europea. Ciò nonostante per l’aspettativa di vita siamo al quinto posto per gli uomini, 83 anni e 11 mesi, ed al terzo posto per le donne, 87 anni e 2 mesi, la durata della quiescenza media (il periodo di godimento della pensione) diventa tra i più ristretti.
Buone notizie, invece, per chi è già in pensione: con la rata di pagamento del 3 gennaio torna l’indicizzazione dei trattamenti, dopo due anni di blocco.
L’incremento pensionistico verrà conteggiato in base all’inflazione del 2017. Diciamo subito che non si tratta di grandi cifre: l’Ansa stima provvisoriamente un incremento pari ad appena l’1,1%.
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