Non poteva che essere così, un’antitesi, quasi un ‘ossimoro’. Sì, perché mentre da una parte si profila un innalzamento ‘corposo’ dell’età pensionabile, dall’altra, in piena contrapposizione, si chiede di anticipare l’età del ‘collocamento a riposo’.
Precisiamo meglio (per quanto non ce sia bisogno). Gli studi nazionali e europei registrano dati sempre più allarmanti sugli effetti del duro lavoro dell’educatore. I monitoraggi effettuati con cadenza regolare evidenziano l’aumento di un disagio, potremmo dire cronico, degli insegnanti. Si parla sempre più apertamente di esaurimento emotivo e nervoso, depersonalizzazione, scarsa realizzazione personale e pericolosa depressione (in una parola burnout per voler essere inglesi).
Insomma insegnare stanca, consuma, stressa, amareggia la vita, porta malattie e riduce le aspettative di vita (stiamo forse esagerando?). Davvero stremante, logorante, devastante. Si potrebbe pensare che questa crisi professionale (un’inquietudine corrosiva, un malessere ostinato, un ‘male di vivere’ e di insegnare) sia un ‘privilegio’ di noi vecchi docenti. Non è del tutto così.
Certo, gli anziani, già logorati da anni di precariato, da un continuo e lungo pellegrinare (correre) in scuole diverse e tra loro non vicine, da lotte estenuanti con Dirigenti, famiglie e, molto spesso, con alunni sono i più vulnerabili e i più colpiti da questa ‘sindrome della scuola’ che consuma il fisico e la mente, ma il problema investe, in modo diverso e con manifestazioni soggettive, tutti i docenti dai più giovani ai più ‘datati’. Inoltre dobbiamo considerare il pesante fardello di lavoro da svolgere, una gravosa zavorra che si ingigantisce di anno in anno e obbliga a sfiancanti straordinari (anche domiciliari), le incombenze burocratiche che si moltiplicano in maniera esponenziale e depauperano la didattica e il dialogo con i ragazzi e il prolificarsi incessante e disorientante di casi ‘particolari’ (così tanti da diventare ‘normali’) che obbliga non solo a creare un numero infinito di piani educativi personalizzati (atti sostanzialmente amministrativi) ma, soprattutto, costringono i docenti a sforzi didattici pressoché proibitivi (bisogna essere di tempra forte e diventare, in breve tempo, e a ritmi forzati bravi psicologi e provetti assistenti sociali) per far fronte a tutte le esigenze ‘personali’ degli allievi ed individuare il percorso metodologico giusto, atto a rispondere positivamente a tutte le loro problematiche (spesso assai delicate, nuove e incomprensibili per i docenti, in particolare modo per quelli avanti negli anni). Se poi aggiungiamo le misere gratificazioni economiche (bastano quelle morali?) comprendiamo benissimo le richieste rivolte dall’ Anief allo Stato finalizzate ad ottenere, per i docenti, la possibilità di andare in pensione a 60, massimo 62 anni.
Probabilmente le Signore e i Signore dei ‘piani alti’ avranno trattenuto a stento un ironico sorriso di fronte ad una tale richiesta. In pensione a 60 anni? Di questi tempi? Con la finanza pubblica dissestata e vacillante?
Impossibile. E poi una tal ‘indecente’ richiesta proprio dai docenti, con le loro misere 18 ore di lavoro e i tanti mesi di vacanza (falsità, ahimè, dure morire)? Proprio impossibile, anzi, per ragioni pratiche ed economiche (la metallica moneta prima di ogni cosa) lo Stato va in direzione opposta a quella desiderata e sta cercando di costringere (volontariamente, per ora) gli impiegati pubblici, compresi i docenti a chiedere, per ragioni di sopravvivenza, di andare in pensione non a 67 anni, ma addirittura a 70 (forse anche altre). Nulla, per ora viene imposto, ma si stanno creando le condizioni perché sia il lavoratore stesso (come se fosse un masochista) a domandare una tale ‘condanna’ pur di avere, solo in età avanzata, una pensione minimamente adeguata per vivere dignitosamente (o per morire dignitosamente).
Non vogliamo pensare a docenti settantenni o ultrasettantenni con la vista debole, l’udito dimezzato, il sorriso finto e la voce affaticata, cercare di far lezione, dopo essersi trascinati, curvi e ansimanti, fino alla cattedra, mentre gli allievi si concentrano, annoiati e infastiditi dalle parole stentate e incomplete dei ‘vecchietti’, in altre loro attività informatiche. Non vogliamo pensare ai compiti smarriti, alle interrogazioni confuse, ai voti mancanti (o ai troppi voti assegnati senza alcuna verifica), alle griglie di valutazioni ermetiche e indecifrabili, alle difficoltà nel riconoscere alunni e genitori e ad altri disagevoli inconvenienti a cui rischierebbero di andare incontro i nostri ‘vecchi’ (tra i quali, è evidente, ci sarei anch’io).
Forse che il Ministero dell’Istruzione (e del merito) ci vorrà portare in parte obbligatoriamente e in parte volontariamente (almeno in apparenza) a dissanguarci per la patria finché non diverremo tutti ottuogenari (o anche di più), per sperare, poi, in una nostra veloce dipartita (quante pensioni risparmiate!)? O forse ritiene che tutti i docenti ambiscano a continuare a ‘soffrire’ ad libitum e senza soluzione di continuità (certo qualcuno ci sarà e poi, si dice, se la speranza di vita si allunga) fino all’ultimo respiro? Uno Stato sociale dovrebbe venire incontro alle esigenze dei più fragili (in questo caso i docenti anziani e non gli alunni).
Dovrebbe, ma…. Ma allora è meglio non toccare nulla riguardo le pensioni, si rischierebbe (se l’orientamento del Potere è quello ipotizzato) di peggiorare la già penosa situazione, meglio lasciare con tristezza e rassegnazione la tanto famigerata e vituperata legge Fornero che, in fin dei conti, sembra (chi l’avrebbe mai detto!) ancora la più umana. O no?