Mandare in pensione i dipendenti pubblici a 62 anni, soprattutto quelli in possesso di una certa anzianità contributiva e con poche motivazioni lavorative: per loro si prospetterebbe un incentivo volontario all’esodo. L’ipotesi sarebbe allo studio del dicastero della Pubblica Amministrazione, dove è giunto da pochi giorni il nuovo ministro Renato Brunetta.
La notizia è stata riportata il 10 marzo dal Messaggero e rientrerebbe nella riforma della PA, che prevede pure il nuovo reclutamento, presentata il giorno prima in audizione al Senato presso le Commissioni Affari costituzionali e Lavoro riunite: per finanziare il piano, il governo si avvarrebbe dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza derivanti dalla Commissione europea.
Il pensionamento anticipato – anche di molto rispetto ai parametri imposti con la riforma Fornero – riguarderebbe prioritariamente quei lavorativi demotivati e ritenuti inadeguati a stare al passo coi tempi, a partire dalle nuove tecnologie e dei dispositivi informatico-telematici.
Il quotidiano romano ricorda che nell’ultimo biennio 2019-2020 sono stati 190mila i dipendenti pubblici andati in pensione nei prossimi tre o quattro anni si prevedono invece 300mila uscite.
Tra le ipotesi sulle formule che il governo starebbe valutando, comunque, rimane sempre in vita la cosiddetta ‘Quota 92’: il pensionamento, in questo caso, scatterebbe con la somma dell’età anagrafica con quella dei contributi pari, appunto, a 92 (probabilmente con una soglia minima per entrambe, sulla scia di ‘Quota 100’ che prevedeva almeno 38 anni di contribuzione riconosciuta e 62 di età anagrafica).
Una conferma ad accelerare in questa direzione si può cogliere pure nella relazione presentata dallo stesso ministro Renato Brunetta sulla PA legata: parlando delle pensioni e delle nuove assunzioni, il forzista ha detto che “le cessazioni delle fasce con maggiori anzianità contribuiscono a elevare la quota di laureati che tuttavia non supera il 40%”.
L’idea di Brunetta, sempre se troverà spazio, dovrebbe interessare i sindacati. Nella stessa giornata, non a caso, la Uil – attraverso il segretario confederale Domenico Proietti – ha chiesto di rivedere il meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile, a fronte della riduzione dell’aspettativa di vita certificata dall’Istat a un anno dall’inizio della pandemia.
Ad oggi, ricorda il sindacato Confederale, il meccanismo di adeguamento automatico dall’età pensionabile non prevede adeguamenti al ribasso, perché l’aspettativa di vita negli ultimi decenni era stata sempre crescente.
“Il Governo apra subito un confronto con i sindacati su questo tema e su quello più generale sulla necessità di introdurre una flessibilità più diffusa di accesso alla pensione in vista della scadenza di quota 100″, ha detto Proietti.
Marcello Pacifico, presidente Anief, dal canto sui ricorda che “ci sono professionalità” nella PA, “a partire dal personale scolastico, particolarmente esposte a problemi di salute e sicurezza, il cui operato deve essere collocato tra i lavori gravosi. Si tratta di dipendenti statali che già debbono fare i conti con le conseguenze del burnout, tra l’altro per avere convissuto con un rischio biologico molto superiore ad altre categorie ma non riconosciuto dallo Stato: non possono pure essere lasciati in servizio fino a 70 anni di età, magari dopo 40 e più di anni di contributi versati”.
Il sindacalista ritiene però che l’anticipo non dovrà “comportare decurtazioni all’assegno pensionistico, anche perché già il sistema contributivo è purtroppo determinante in negativo: ci aspettiamo un allargamento, per capirci, della Ape social, che permette di lasciare il lavoro dai 62 anni” senza “alcun ridimensionamento dei compensi. La decisione, tra l’altro, farebbe ringiovanire un comparto la cui età media è a dir poco sbilanciata verso l’alto”.
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