Lunedì 27 gennaio ci sarà il primo appuntamento per i tavoli di confronto tra governo e sindacati sul tema delle pensioni. Speriamo come si diceva un tempo che si tratti di “tavoli di concertazione”: perché da diversi anni i governi invocano il confronto e poi fanno regolarmente quello che avevano già deciso, o “qualcuno” aveva già deciso per loro!
Dopo la proposta Brambilla ed altri di innalzare da 62 a 64 anni la soglia minima d’accesso come flessibilità per il pensionamento (alla conclusione di “quota 100”) mantenendo i 38 anni di versamenti previdenziali, e per giunta ricalcolando l’assegno di quiescenza esclusivamente con il sistema contributivo (insomma una “quota 102” gravemente penalizzante), vista l’indignata reazione dei lavoratori e la ferma contrarietà dei sindacati che prospettano ben altre soluzioni (a partire dal fatto che ritengono 62 anni l’età equa per l’uscita anticipata, confrontandosi invece sugli anni di contribuzione da associare, ovviamente non con il sistema interamente contributivo, oltre a garantire il pensionamento con 41 anni di contributi a prescindere dall’età) ora viene fuori la proposta di Francesca Puglisi, sottosegretario al Ministero del lavoro: sempre 64 anni di età ma con 35 anni di contribuzione.
Sembra anche strana la tempistica fra le due proposte governative: prima il “bastone” di una proposta che in altro articolo (in cui vengono analizzate e commentate le posizioni di “favorevoli” e “contrari”) ho già definito da “barzelletta” (quella di “quota 102” con tutto contributivo, una sorta di Opzione donna ma a 64 anni anziché a 58 anni‼), poi quella che potrebbe sembrare una “carota”: la “quota 99” (della serie: “vedete siamo più buoni”, abbassiamo “quota 100”), che in realtà è un’altra “polpetta avvelenata”, meno della precedente appunto, per far tirare un sospiro di sollievo ai lavoratori… impauriti dalla “quota 102” con tutto contributivo: una vecchia tecnica per far accettare lo “scampato pericolo”!
Ma ai sindacati l’ipotesi non convince perché hanno dichiarato che anche questa proposta non corrisponde alla piattaforma su cui almeno i Confederali concordano.
Il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli ribadisce la necessità di avviare la flessibilità previdenziale a partire dai 62 anni, perché a partire da questa età i lavoratori “devono essere liberi di scegliere, sapendo che se si va in pensione più tardi aumenta l’accumulo del montante e il coefficiente di trasformazione”. Liberi di scegliere, nessuno è obbligato a fare la domanda di quiescenza a 62 anni, ma è proprio il concetto di Libertà (sì, con la lettera maiuscola) che deve trovare “diritto di cittadinanza” in un Paese civile!
Tra l’altro la Puglisi ha detto chiaramente che con questa ipotesi verrebbe cancellata definitivamente per il futuro anche Opzione donna, certamente assai penalizzante, ma comunque pur sempre una possibilità per chi non ce la fa più: quindi le lavoratrici che adesso a 58 anni nel settore pubblico e a 59 nel privato (sempre con 35 anni di contributi) possono valutare tale possibilità, con “quota 99” faranno un bel salto avanti di 6 (leggasi sei!) anni per il settore pubblico e 5 per il privato, certo con il sistema “misto” ma allora si lasci la decisione alla libera scelta delle donne (visto che ipocritamente si parla tanto di quanto le lavoratrici siano state penalizzate da un sistema pensionistico che ha vertiginosamente innalzato in questi anni la loro età pensionabile) se optare per una uscita a 58/59 anni con forte penalizzazione oppure a 64 senza “decurtazione” (perché altrimenti ancora una volta, rispetto alle possibilità attuali, saranno proprio le donne a subire il “maggior salto in avanti” dal punto di vista anagrafico), almeno sin quando non si arriverà al “tutti con il contributivo” (cioè con i contributi previdenziali totalmente versati dal 1996 in poi) e allora allo Stato legittimamente non converrà più proporre Opzione donna (perché sia chiaro: non è che le “uscite anticipate” le fanno per una cortesia nei confronti dei cittadini, ma per mere ragioni di convenienza, o di impopolarità delle “ricette rigoriste”!).
Nella “quota 99” alle donne, spiega Puglisi, “verrebbe assegnato un anno extra di contributi (quindi non una diminuzione del parametro dell’età, n.d.R.) per ogni figlio, senza limiti di figli”. Senza limiti di figli?! Quindi chi ha ad esempio 10 figli “conquista” dieci anni di contributi?! Si è opportunamente parlato in questi mesi per le donne di benefici contributivi collegati ai figli (e/o al “lavoro di cura”), ma certo non “senza limiti di figli” (ad esempio uno sconto contributivo di un anno per ogni figlio è già previsto con l’Ape sociale, ma con massimo di 2 anni complessivamente). Perché se un bonus complessivo di un paio di anni, congiunto al riconoscimento del “lavoro di cura”, può anche considerarsi accettabile, il “senza limiti di figli” è, peraltro, una proposta che determina assurde, se non anche “dolorose”, discriminazioni fra donne‼
Però magari qualche insegnante spera che la professione docente possa essere inserita fra i nuovi “lavori gravosi” (peraltro è già riconosciuto come tale l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e per gli educatori degli asili nido, e francamente non appare chiaro perché debba essere considerato meno “gravoso” insegnare negli altri ordini di scuola, dove le problematiche che determinano stress, burnot, crescenti malattie professionali non mancano di certo, come evidenziato nel mio suddetto precedente articolo). No, non credo. Infatti la Puglisi ha detto: “per i lavori gravosi e usuranti e i lavoratori precoci interverrebbe l’Ape sociale, potenziata e resa strutturale. Immagino di includere nell’elenco dei mestieri pesanti anche artigiani e commercianti”.
Cioè inserire le categorie, insieme a quelle dei liberi professionisti, dove statisticamente – come si legge dalle cronache – è più alto il fenomeno dell’evasione fiscale (senza peraltro “criminalizzare” indistintamente tali categorie, fermo restando ovviamente che la maggior parte dei liberi professionisti, artigiani e commercianti sono persone irreprensibili ed oneste che pagano regolarmente le tasse)?
Invece la professione docente per la Puglisi non è un lavoro gravoso. E pensare che Francesca Puglisi è stata responsabile nazionale Scuola del Partito democratico. Ma immagino che di queste sue “attenzioni” si ricorderanno gli elettori che fanno parte del mondo della scuola quando si tornerà a votare. Peraltro, eletta nel 2013 al Senato, Puglisi è stata poi ricandidata senatrice nel 2018, ma non venne rieletta, poi candidata nel Nord-Est alle elezioni europee del 2019 ma neanche quella volta riuscì a farsi eleggere, però nonostante questi “successoni” elettorali è stata chiamata a far parte del secondo governo Conte in qualità di sottosegretario al Ministero del lavoro.
A proposito, siccome ho l’impressione che diversi docenti vedano con favore questa nuova proposta (e qualcuno… non disdegnava forse neanche l’ipotesi “102 tutto contributivo”!), li inviterei a riflettere bene e non vorrei che per poter fruire di un trattamento di quiescenza a 62 anni di età, con la vituperata (perché, a confronto di altre proposte peggiorative?) “quota 100”, le stesse persone debbano poi sperare in un ritorno al governo di Salvini (magari come premier!); in quel caso: contenti voi…
Per fortuna non la pensa come l’ex responsabile Scuola del Pd l’illustre medico Vittorio Lodolo D’Oria, che sottolinea come “restare in cattedra oltre i 60 anni, alle condizioni odierne, appare davvero poco compatibile con l’attuale condizione di salute dei docenti, con gli insegnanti più anziani d’Europa e con un corpo docente femminile all’83%, prorogare un simile sistema di ‘maestre-nonne’ equivale a calpestare l’art.28 del negletto D.L. 81/08 che esige la tutela della salute del lavoratore considerando anche le due fondamentali variabili quali il genere e l’età”.
Ma i sindacati non sono affatto “entusiasti” della proposta di Francesca Puglisi. Della presa di posizione del segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli, che non ha condiviso le recenti dichiarazioni rilasciate dalla sottosegretaria al Lavoro rispetto all’avvio “anagrafico” della flessibilità previdenziale, abbiamo già detto.
A sua volta il segretario confederale della Uil Proietti ha fatto invece un riferimento esplicito alla Fornero: riferendosi a chi si oppone del tutto all’idea dei sindacati confederali (ma non solo loro) di uscita anticipata a partire dai 62 anni definendola una scelta “insostenibile ed irresponsabile”, Domenico Proietti ha detto: “noi rispettiamo tutte le opinioni e siamo aperti al confronto, ma chi definisce questa proposta irresponsabile dovrebbe avere almeno il pudore di ricordarsi quale trauma è stata la gigantesca operazione di cassa fatta sul finire del 2011 sulle spalle di lavoratori e pensionati”.
E aggiungo: non dimentichiamoci del grande problema degli esodati, che nonostante siano passati tanti anni e siano state fatte diverse “salvaguardie” ancora non è stato risolto per tutti.
In Italia il requisito per l’accesso alla pensione di vecchiaia è il più alto d’Europa, praticamente allineato a quello della Grecia, dove il requisito anagrafico richiesto è pari a 67 anni (tuttavia, il requisito greco è suscettibile di numerose deroghe attualmente in vigore che possono abbattere di molti anni l’età di accesso alla quiescenza).
Per il segretario confederale Uil Domenico Proietti bisogna separare “l’assistenza dalla previdenza” (in effetti, il problema dell’Inps è scorporare la spesa previdenziale da quella assistenziale, perché come ho scritto anche in passato con le riforme Amato e Dini i conti pensionistici sono stati messi in equilibrio e il sistema è ritenuto solido), in modo che “sarà chiaro che in Italia ci sono tutte le condizioni di sostenibilità economica per continuare a cambiare la Legge Fornero nella direzione dell’equità e della giustizia”.
E con i pensionamenti, via al turn over con l’ingresso finalmente (in modo meno precario) nel mondo del lavoro dei giovani, per smantellare l’idea che in modo strumentale molti diffondono: contrapporre il lavoro dei giovani al pensionamento flessibile degli anziani; mettere contro le generazioni lo ritengo un atto molto grave, laddove invece il problema è che non si fa il giusto (e dovuto) ricambio lavorativo. Anzi a chi assume giovani (nel privato ma anche nel settore pubblico) si possono dare maggiori sgravi fiscali. Il problema è che non si vogliono pagare insieme le pensioni agli anziani sotto una certa età e gli stipendi (magari inizialmente “calmierati”) per i giovani; risultato: o si licenziano gli anziani (che non troveranno più un altro lavoro!) o non si assumono i giovani (ipotesi assai più diffusa). Complimenti‼
Dunque “quota 99” e grazie? Ma neanche per idea, anche questa è una proposta irricevibile. Allora eventualmente meglio tornare alla proposta di Cesare Damiano, riveduta e corretta un po’, con uscita libera dai 62 anni in su e penalizzazione lieve, cioè del 2% per ogni anno che si anticipa l’uscita per vecchiaia fissata a 67 anni, intervento che dovrebbe però essere strutturale e appunto partire necessariamente da 61 o 62 anni, (oppure differenziando fra donne e uomini, ad esempio 60 per le donne e 62 per gli uomini) e non oltre come requisito anagrafico.
Una proposta simile in quanto a “contrappesi” ma legata alla quota dei contributi previdenziali, e non all’età fissata per la pensione di vecchiaia, viene dal Sisa (Sindacato indipendente scuola e ambiente), il cui segretario generale Davide Rossi ha spiegato che la quiescenza dovrebbe essere fissata con 40 anni di contributi versati prevedendo lievi decurtazioni per chi volesse andare prima in pensione ma anche incentivi (lievi maggiorazioni) per chi intende rimanere più a lungo al lavoro.
A meno che “quota 99” non vincoli né età né contributi, cioè la quota sia raggiungibile mischiando in qualsiasi modo requisito anagrafico e contributivo (o comunque far scegliere in una fascia di oscillazione compresa fra 61+38 e 64+35; magari anche in questo caso l’oscillazione potrebbe in qualche modo essere legata al “genere”, differenziando tra uomini e donne).
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