Nella manovra economica approvata dal Consiglio dei Ministri c’è anche l’attesa quota 100 relativa all’anticipo pensionistico: dai primi mesi dell’anno, tra febbraio e aprile, sarà consentita l’uscita a 62 anni d’età con 38 anni di contributi. Dovrebbero essere previste quattro finestre l’anno, anche se per la scuola rimane solo quella estiva. Questo è lo stato dell’arte della norma inclusa nella manovra di bilancio. Ma quali sono gli effetti pratici del provvedimento? Le ultime notizie non sembrano proprio positive per i lavoratori che aderiranno.
Addio al sistema “misto”?
Nelle ultime ore, in molti hanno criticato il provvedimento. Soprattutto perché, a ben vedere, risulterebbe poco conveniente ai fini della formazione dell’assegno di quiescenza. Secondo Rai Radio Uno (GR1 ore 13 del 17 ottobre), addirittura “il ricalcolo dell’assegno” di quota 100 sarebbe “totalmente contributivo”. E cadendo il sistema cosiddetto “misto”, vi sarebbero “pesanti ricadute” sulla consistenza della pensione stessa.
Per intenderci meglio, per il lavoratore che andrà in pensione in corrispondenza dell’età prevista dalla legge vigente (quasi 67 anni di età anagrafica oppure oltre 42 anni di contributi versati), il sistema contributivo integrale scatterà qualora abbia iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995. Qualora abbia invece già maturato almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, il sistema retributivo si sarebbe perso solo a partire dal 1° gennaio 2012.
Di sicuro, comunque, ammesso che non scatti il contributivo per tutto il periodo, la penalizzazione è certa. Anche perché al sistema contributivo non si applicano le disposizioni sull’integrazione al minimo: chi ha versato contributi dal valore molto basso, potrebbe così percepire una pensione davvero ridotta, pur avendo effettuato molti anni di contributi.
A quantificare il “danno” ci ha provato Tito Bori presidente Inps, tornato alla Camera per proseguire l’audizione sulla riforma pensionistica, a partire dagli assegni da tagliare in presenza di pensioni d’oro, e rilanciando l’allarme, già fornito la settimana scorsa, sui maggiori costi che gli interventi del Governo potrebbero causare al sistema.
Secondo il numero uno dell’Istituto di previdenza nazionale, un lavoratore che decidesse di andare in pensione con quota 100 a 62 anni e 38 di contributi, in anticipo di cinque anni rispetto all’età di vecchiaia, potrebbe dover rinunciare a circa il 21% rispetto all’assegno che avrebbe preso a 67 anni.
In pratica, con uno stipendio di 40.000 euro annui e una pensione retributiva fino al 2011, poi contributiva, andando in pensione con 62 anni di età e 38 di contributi, invece che a 67 anni come previsto dal 2019 per la pensione di vecchiaia (e versando i contributi), andrebbe a ricevere circa 30.000 euro lordi l’anno. Una cifra non molto lontana da quella che percepirebbe un insegnante di scuola superiore che ha superato i 35 anni di anzianità.
“Uscendo cinque anni prima – ha detto Boeri – si rinuncia a circa 500 euro al mese lordi, che si sarebbero presi uscendo a 67 anni. In pratica a 67 anni si prenderebbe una pensione da 36.500 euro ma avendo versato contributi per altri cinque anni. Se invece si va in pensione prima non si versano contributi e si prendono 150.000 (30.000 per cinque anni) euro di assegni in più”.
“Quindi si prendono nei primi cinque anni importi pari a circa 23 anni di decurtazione potenziale dell’assegno. Gli interventi del Governo sul sistema previdenziale potrebbero portare costi aggiuntivi per 140 miliardi in 10 anni”, ha sentenziato Boeri.
Il M5S, con il deputato Davide Tripiedi, si è scagliato contro il presidente Inps dicendo che “fa politica” e che è “una vergogna” che si sia presentato con calcoli su temi diversi rispetto a quelli sui quali è stato audito.
Il Governo, in ogni caso, la sua proposta l’ha fatta: spetterà, presto, alla Corte Costituzionale e alla Commissione europea pronunciarsi sulla sua consistenza, come per tutto il resto della manovra economica decisa dal Governo giallo-verde.
Come avevamo detto da tempo, il Governo nel presentare la manovra ha annunciato la proroga dell’opzione donna, sottolineando che si permetterà alle lavoratrici con 58 anni, se dipendenti, o 59 anni, se autonome, con 35 anni di contributi, di andare in pensione.
Anche in questo caso non si chiarisce se l’età annunciata contiene anche la decorrenza (la cosiddetta finestra mobile di un anno) utilizzata finora (ma a partire da 57 anni) e gli incrementi dell’aspettativa di vita (12 mesi in totale nel 2019) che porterebbero nel complesso l’età effettiva nella quale si percepisce la pensione a 60 anni per le dipendenti e 61 per le autonome.
Ciò significa che basterebbero 35 anni di contributi ma si avrebbe l’assegno calcolato interamente con il metodo contributivo, che equivale ad un taglio permanente anche del 30% dell’assegno pensionistico.
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