Il “Pacchetto pensioni” del Governo si sta rivelando molto diverso da come era stato annunciato: dopo i rilievi mossi prima dalla Commissione Ue e bissati venerdì 26 ottobre da Standard & Poor’s, la bozza del documento che prevede l’uscita anticipata, anche di cinque anni, si sta riempiendo di clausole, postille e paletti sinora non previsti.
La prima doccia fredda riguarda i lavoratori che speravano nello “sconto” per la pensione di vecchiaia: l’esecutivo Gentiloni, infatti, aveva previsto lo spostamento in avanti di cinque mesi, dagli attuali 66,7 a 67 tondi, per via dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Nelle ultime settimane sembrava prima che l’elevazione sarebbe stata congelata; poi si è detto che si sarebbe portata a 67 anni per l’ultima volta, bloccando i già previsti innalzamenti successivi. Adesso, però, si scopre che nessuna delle due ipotesi erano corrette.
Dal 1° gennaio, infatti, la pensione di vecchiaia scatterà a 67 anni. E rimarrà ferma al massimo per tre anni. Poi, nel 2022 o 2023 scatteranno gli adeguamenti legati alle variazioni della speranza di vita.
Quindi, se verrà confermato il modello presente nella bozza attuale, ci ritroveremo che da questo punto di vista non cambierà molto rispetto alle norme precedenti all’approdo al Governo dell’attuale maggioranza.
Non si eleveranno di cinque mesi, invece, i requisiti richiesti a coloro che intendono lasciare con l’accumulo dei contributi, prescindendo dall’età anagrafica: resteranno fermi a 42 anni e 10 mesi (41 anni e 10 mesi per le donne) anche l’anno prossimo.
E il blocco rimarrà in vita anche negli anni successivi. Inoltre, è prevista una finestra mobile trimestrale anche per chi esce con questa norma
A trepidare, però, sono soprattutto quei dipendenti a cui si continua a dire che nel 2019 chi avrà 62 anni di età e 38 di contributi potrà lasciare la propria occupazione.
Prima di tutto perché su quota 100, il Governo sembrerebbe avere trovato la quadra adottando provvedimenti diversi a seconda del datore di lavoro.
Quelli che operano nel privato, iscritti all’Inps che avranno maturato i requisiti entro dicembre 2018 potranno uscire il 1° aprile 2019. Invece, se li matureranno dal 1° giorno del 2019 potranno ricevere la pensione “trascorsi tre mesi dalla data di maturazione dei requisiti”, quindi con una sorta di finestra mobile trimestrale
Invece, i lavoratori pubblici che maturano i requisiti per quota 100 entro il 31 dicembre avranno l’assegno pensionistico dal primo luglio, mentre se maturano i requisiti successivamente il diritto alla decorrenza dell’assegno sarà maturato dopo sei mesi.
Con questo scenario, cosa potrebbe accadere ai dipendenti della scuola (con circa 80 mila potenziali interessati all’anticipo) non è ancora affatto chiaro. L’unica certezza è che per questo personale la finestra sarà annuale.
Per il resto, rimangono in piedi una serie di interrogativi che per molti risultano fondamentali.
Il primo dubbio riguarda la possibilità di potere accedere subito al beneficio di quota 100: il personale della scuola, infatti, deve avere la possibilità di presentare domanda entro le primissime settimane del nuovo anno solare (si potrebbe indicare come limite la prima decade di febbraio).
Ma se le novità legislative si sganciano dalla legge di bilancio, che conterrà solo le coperture, i tempi potrebbero allungarsi. E sforare nel nuovo anno, per l’approvazione definitiva, per chi opera nella scuola significherebbe “bruciare” un anno. Per vedere la loro uscita anticipata con quota 100, in questo caso, se ne riparlerebbe nel settembre 2020.
Ma se il Governo vuole scongiurare tale ipotesi, è bene che si provveda subito ad inserire una deroga nel pacchetto pensioni.
C’è poi almeno un altro passaggio da verificare specificatamente per la scuola: quello del beneficio dei quattro mesi che tutti i docenti collocati in pensione si ritrovano.
In pratica, chi va in pensione il 1° settembre, “incassa” anche i quattro mesi successivi, fino al 31 dicembre dello stesso anno, che vanno ad aggiungersi al monte complessivo di contributi. Un’aggiunta che in alcuni casi può risultare decisiva per raggiungere il montante richiesto dall’Inps. Ma non è detto che venga ora confermata.
Infine, c’è da scoprire il capitolo penalizzazioni: ci saranno per chi lascia a 62 anni. Riteniamo che lasciano cinque anni prima, i lavoratori possano perdere una percentuale non proprio indifferente.
Per chi vanta “solo” 38 anni di contributi e un anticipo vicino ai cinque anni, la decurtazione potrebbe anche arrivare anche al 20% in meno rispetto a chi invece tiene duro sino a 67 anni di età; mentre coloro che possono contare su una contribuzione maggiore (attorno o superiore ai 40 anni, magari mettendo nel “piatto” il riscatto della laurea), il decremento dovrebbe essere di pochi punti percentuali, probabilmente si tradurrebbe in una perdita sotto i cento euro mensili.
Queste le regole generali. Come sempre, sono previste delle eccezioni. Innanzitutto per il personale di volo, che potrà andare in pensione di vecchiaia con sette anni di anticipo: la riduzione ulteriore del requisito (oggi fissata a cinque anni di anticipo) dovrebbe essere finanziato con i tre euro di diritto di imbarco che si pagano su ogni biglietto aereo, tassa che diventerebbe strutturale.
Rimane confermata l’opzione donna, l’uscita anticipata ma con la pensione ricalcolata con il solo metodo contributivo: sarà riservata alle donne dipendenti con almeno 58 anni e le autonome con almeno 59 anni di età, purché abbiano accumulato almeno 35 anni di contributi.
Si applica una finestra mobile di 12 mesi per le dipendenti e di 18 mesi per le autonome. Per loro non si applica l’adeguamento legato alla speranza di vita.
Poi ci sono le Ape social: le professioni che accedono all’anticipo, tra le quali figurano anche le educatrici dei nidi e i maestri della scuola dell’infanzia. Anche per loro lo “sconto” sarebbe attorno ai 4-5 anni.
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