La controriforma Fornero si sta rivelando un po’ diversa da come speravano molti lavoratori, tra cui anche tanti docenti e dipendenti della scuola: in particolare, con la manovra di fine anno è stato deciso di rinviare all’anno prossimo la discussione sull’uscita dal lavoro con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica. Questo significa che i nati dopo 1957 che hanno cominciato a lavorare giovani ma oggi non hanno ancora raggiunto i 43 anni di contributi previdenziali, dovranno rimanere ancora in servizio.
In particolare, se la quota 100 che si sta delineando consentirà di far lasciare il lavoro nel 2019 a chi ha compiuto 62 anni e ha all’attivo almeno 38 anni di contributi, per chi ha 41 anni di contributi ma non ha ancora compiuto i 62 ci sarà da aspettare ancora.
Per capirci, chi è nato nel 1958 ed ha cominciato a lavorare a 20 anni di età, nel 1978, dovrà aspettare ancora un biennio, quindi il 2020.
Anche i lavoratori che sono nati nel 1959 pur avendo cominciato a lavorare nel 1978, quindi già a 19 anni, dovranno attendere due anni.
E qual è il destino per chi non rientra nei parametri previsti per fruire dell’anticipo? Dovranno semplicemente fare riferimento all’attuale pensione vecchiaia (che dal primo gennaio 2019 scatterà a 67 anni) oppure attendere, lavorando altri anni, che si vadano a determinare le condizioni per andare via prima.
Solo per i lavoratori precoci (quelli che hanno cominciato a lavorare prima dei 19 anni) in situazioni di difficoltà (per i quali era intervenuto il Governo Gentiloni) come la disoccupazione o la disabilità di un familiare resta l’accesso alla pensione con 41 anni di contribuzione indipendentemente dall’età.
Per la pensione anticipata indipendente dall’età anagrafica, nella migliore delle ipotesi, il Governo potrà procedere al blocco dell’aumento dell’aspettativa di vita di cinque mesi e quindi il mantenimento dei 42 anni e 10 mesi di contributi (41 e 10 mesi per le donne): in questo caso, chi è nato nel 1957 e ha cominciato a lavorare nel 1981 potrà andare in pensione, grazie a quota 100, ben cinque anni prima rispetto alle norme vigenti.
Mentre chi è nato nel 1953 e ha cominciato a lavorare nel 1977 potrà lasciare il servizio lavorativo solo a 66 anni e 42 di contributi, quindi appena un anno prima rispetto alle norme attuali.
Ad essere danneggiati dal paletto dei 62 anni minimi per accedere a quota 41, ci sono molti docenti.
Sicuramente i maestri che hanno iniziato attorno ai 20 anni di età, magari entrando in ruolo qualche tempo dopo, ma facendosi valere gli anni mancanti attraverso la disoccupazione.
Poi ci sono i laureati, in particolare, coloro che hanno iniziato a lavorare continuativamente a 23-24 anni: questi insegnanti, potrebbero far valere gli anni di università (quattro o cinque) e (nel caso degli uomini) anche del militare, ma pur raggiungendo i 41 anni di contribuzione saranno comunque costretti a rimanere in servizio.
“Per quota 41, il 2019 sarà l’anno per risolvere anche questo problema”, ha detto il vicepremier Luigi Di Maio, parlando il 29 settembre in conferenza stampa in Campidoglio in vista della preparazione della manovra e quindi ammettendo che le indiscrezioni sui provvedimenti sono corrette.
“Pensionati in piazza? Tutti, lavoreremo con tutti e non ho mai detto che non verrà rifinanziata opzione donna”, ha anche detto il “grillino”.
Di tutt’altro tenore sono le reazioni del Partito Democratico: “Questa è una manovra contro il popolo. Anche per questo ci aspettiamo tanta gente domani in piazza del Popolo a Roma”, ha detto a Repubblica Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera, commentando l’iniziativa di piazza prevista nella capitale per domenica 30 settembre.
“Non va l’aumento della spesa corrente per misure sulle pensioni e per il reddito di cittadinanza. Quando uno Stato decide di togliersi dalla via maestra che è quella di creare lavoro e investimenti, in realtà sta scaricando il peso sulle nuove generazioni”.
Severo è anche il giudizio dell’ex premier Romano Prodo: “Il documento governativo è in perfetta coerenza con le tendenze della politica contemporanea: esso si cura del consenso di oggi e non delle necessità di domani”, ha scritto Prodi sul Messaggero.
“Le scelte compiute – dice Prodi in riferimento al reddito di cittadinanza e alla revisione della legge Fornero – sono forse positive per il risultato politico di breve periodo, ma certamente negative per la crescita futura”. Sulle pensioni, “la svolta impressa dal governo toglie sicurezza al futuro del sistema”.
Secondo Prodi, “quello che però più colpisce è la marginalità della politica per gli investimenti proprio in un periodo nel quale la nostra economia mostra segni di un pericolosissimo rallentamento”.
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