Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte assicura: non ci sarà alcuna crisi di Governo, anzi è già pronta “una lista di priorità utili a rilanciare il Paese”. E tra queste, tra le azioni da attuare con l’inizio del 2020, contenute in un “cronoprogramma con le riforme che l’Italia attende da anni”, c’è anche la Scuola.
Intervistato il 24 novembre dal quotidiano “Repubblica”, il capo del Governo richiama gli alleati alla “concentrazione” sui punti più importanti: al primo posto c’è ovviamente l’ex Ilva, per la quale dice che l’esecutivo ha bloccato il recesso di Arcelor-Mittal da Taranto” ed “evitato un disastro economico e sociale” rispedendo “al mittente la loro richiesta di taglio”.
Ma subito dopo la questione Ilva, il presidente del Consiglio cita la revisione del sistema fiscale e in particolare l’Irpef, e la necessità di “investire più efficacemente nell’istruzione, nella ricerca e nell’innovazione“.
A dire il vero, la Scuola, Università compresa, è sempre stata citata dal Governo come un comparto decisivo per rilanciare il Paese: il punto è che sinora ci si è fermati alle buone intenzioni.
Nella legge di bilancio, tanto per fare l’esempio del momento, ad oggi alla Scuola sono stati assegnati appena 43 milioni di euro, di cui 30 da assegnare per gli aumenti dei dirigenti scolastici.
A anche per aumentare gli stipendi di docenti e Ata, clamorosamente al di sotto dei colleghi europei, non si va oltre 65 euro lordi medi.
Lo stesso ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri (Pd), qualche giorno fa ha detto – riferendosi probabilmente ai risparmi derivanti dalla riduzione progressiva delle iscrizioni degli alunni (già prevista nel Def) – di avere “eredito una bozza di manovra sul tavolo che non sarebbe stata sostenibile. Pensare di poter fare sei miliardi di tagli lineari alla spesa significava dare un colpo mortale alla sanità, alla scuola, all’università”.
Il problema è che i mancati tagli non sono investimenti. Quelli che invece i continuano a promettere. Il primo ad essersi impegnato in questo senso, a costo di dimettersi se non arriveranno almeno tre miliardi di euro per scuole e atenei, è stato il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti.
Il quale anche stavolta non le ha mandate a dire: parlando a Skytg24, il titolare del Miur ha detto che all’interno del Consiglio dei ministri quella sull’istruzione “è sicuramente una sensibilità che viene da parte di tutti, però non posso dire che in questo momento ci sia una consapevolezza di quanto è delicata la situazione della scuola e dell’università nel nostro Paese. Rischiamo davvero che dopo aver tirato la corda per troppo tempo si spezzi definitivamente”.
A proposito dell’azione politica del M5S, di cui fa parte, il ministro dell’Istruzione ha detto che il Movimento dei pentastellati “è impegnato nella direzione di sostegno a questo Governo che sta facendo molto bene”.
“Potrebbe fare molto meglio con maggiore coraggio nel parlare al Paese, e non alla pancia del Paese, dicendo che – ha detto ancora il titolare del Miur – abbiamo bisogno di testa e di investire sui giovani perché altrimenti rischiamo di fallire per sempre”.
Qualche giorno fa, sempre Fioramonti aveva detto, parlando ai giornalisti alla Stampa Estera, e commentando i tagli post legge Gelmini 133/08, che “questo Paese sottofinanzia la scuola e l’istruzione da troppo tempo: servirebbero 5 miliardi l’anno, se volessimo tornare al livello del 2008 servirebbero 25 miliardi e siamo sotto la media dei Paesi Ue: la mia richiesta di 3 miliardi è dunque modesta e pragmatica”. Peccato che fino ad oggi nemmeno quella sia stata portata a termine.
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