I lettori ci scrivono

Per fare scuola bisogna “uscire”

Vorrei fare giungere la mia riflessione ai rappresentanti istituzionali che, in questo tempo così difficile per il nostro Paese, per l’Europa e per il mondo intero, stanno cercando – non senza ritardo – di porre alla attenzione propria e della società un tema che per troppo tempo, complice una serie di gravi silenzi, ne è rimasto ai margini: il destino della scuola italiana quale si sta profilando nell’era del covid-19. 

Non è improprio scomodare, per definire la lunga stagione che stiamo attraversando, il termine apocalisse: non nella sua accezione disarmante e catastrofica che pure gli appartiene, ma nella sua valenza etimologica (dal verbo greco apokalypto) di “ rivelazione, strappo della coltre che copriva una realtà”. La Sanità e la Scuola sono gli ambiti in cui questo disvelamento si è realizzato nelle forme più vistose. L’immensa difficoltà che gli studenti stanno affrontando nel sostenere la didattica a distanza, anche quando, nei casi migliori, si alterna a quella in presenza, impone una riflessione profonda su quale futuro immaginiamo per i nostri ragazzi a fronte di questa deprivazione.  

Con onestà intellettuale dobbiamo ammettere che – nonostante la grande disinvoltura degli studenti nell’uso delle nuove tecnologie e sebbene moltissimi insegnanti, pur consapevoli di essere corpo (e non video) docente, si stiano spendendo in ogni modo per dare un senso al loro essere  membri di una realtà virtuale nel modo più corretto – la scuola è fatta soprattutto di relazione e di presenza. Coscienza critica, consapevolezza culturale e solidità emotiva non sono valori negoziabili, ma unici possibili baluardi contro la degenerazione delle menti e contro l’anestesia del sentire.

L’attuale protesta degli studenti non in nome di un generico “diritto allo studio”, ma di un ancor più concreto “ diritto alla scuola” è un interessante segno dei tempi, da interpretare con intelligenza e cura. Ma di quale scuola stiamo parlando? Necessariamente di quella fatta di aule e di banchi più o meno avveniristici? Volgiamoci con la mente ad altre importanti realtà culturali che in questo tempo sono state defraudate della loro essenza: i musei, le biblioteche, i luoghi d’arte, i teatri, i cinema, le sale-concerto. Il loro silenzio assordante, insieme a quello delle aule scolastiche, ci lancia una sfida: creare un cortocircuito virtuoso tra tutte queste realtà.

Ma come? E’ venuto il tempo di immaginare – almeno per i ragazzi delle Superiori, che sono stati particolarmente penalizzati in questi mesi- una scuola “in uscita”. Penso ogni giorno di più ad un tavolo a cui possano incontrarsi, nelle realtà dei singoli Comuni del nostro Paese, rappresentanti delle istituzioni scolastiche, direttori dei musei, dei teatri, responsabili di aree e parchi naturalistici, bibliotecari. L’Italia possiede straordinarie risorse dal punto di vista paesaggistico, artistico, museale, urbanistico.

Abbiamo luoghi d’arte e di bellezza, di natura e cultura, che in questo tempo sono vuoti o molto poco frequentati. Anche la graduale riapertura dei musei vedrà una frequenza di visitatori molto limitata, date le tuttora vigenti limitazioni all’uscita dalle regioni. Perché non ripartire da lì? La conoscenza del proprio territorio, delle storie che lo hanno abitato, delle culture che lo hanno alimentato è un bene prezioso, dal valore inestimabile.

Al posto o almeno a integrazione della didattica “ dalla stanza”, perché  allora non immaginare- almeno per alcune ore alla settimana- una didattica outdoor  in cui ogni museo, ogni piazza,  ogni teatro, ogni biblioteca, ogni riserva naturale, ogni sentiero che attraversa i nostri paesaggi si faccia luogo di ospitalità per una classe, per più classi a rotazione, per gruppi di alunni che- nel rispetto delle distanze fisiche ma cercando inedite prossimità  delle menti – possano godere di quella bellezza divenuta realmente viva, attraverso lezioni che, a partire dalla suggestione di un quadro, di un monumento, di un’opera dell’arte o della natura, possano intrecciare cammini che superino il particolarismo delle discipline- senza stravolgerne l’ordine-  e lascino il segno? Perché così si lascia, il segno.

Le preziose esperienze fatte in questa direzione, anche in tempi lontani dall’era covid 19, ne sono limpida testimonianza e restano- come oggi ci confermano le scienze cognitive- nella memoria del cuore di chi ha potuto viverle. E c’è bisogno di lasciare traccia per evitare che il dolore, la crisi, l’angoscia e il senso di precarietà e di solitudine abbiano l’ultima parola. Anche questa è scuola, anzi lo sarebbe in modo speciale e creativo. Un modo attraverso il quale- tra l’altro- si potrebbe almeno in parte superare il problema del sovraffollamento dei mezzi di trasporto, perché non tutti i ragazzi dovrebbero utilizzarli alla stessa ora. Per fare scuola bisogna uscire, prima di tutto da se stessi, e dagli spazi chiusi che spesso di noi stessi costituiscono la simbolica proiezione. Non è allora inappropriato parlare di “uscita” in questo tempo che rasenta di più la clausura. Anzi.

Creare un modello di scuola sostenibile, da sperimentare e condividere, partendo da esperienze concrete e non calate dall’alto, sarà possibile a patto di non trincerarsi dietro l’indubbia quanto superabile muraglia della burocrazia, dei permessi, degli accordi, delle tutele. Solo così parole come sinergia, resilienza, rinascita potrebbero uscire dal lessico della propaganda e diventare vita.

Non è estraneo a questo mio appello il richiamo a quei classici che, oggi come ieri, ci offrono chiavi di lettura del mondo. Furono proprio loro- soprattutto nelle grandi scuole filosofiche- i primi a sperimentare che il movimento del corpo attraverso lo spazio dà forma al pensiero, lo rende altrettanto mobile e capace- anche nella fatica del cammino-  di superare ostacoli e di raggiungere mete. Discutiamone insieme, facciamo questo dono ai ragazzi che sono il nostro futuro.

Donatella Puliga (lettera pubblicata dal ‘Corriere della Sera’)

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