Le scuole avviano, scrive Il Corriere della Sera, corsi annuali di L2: lingua italiana per stranieri e quando non bastano, si fa appello alla normativa sui Bes (i bisogni educativi speciali) che tra i tanti disagi degli alunni si preoccupa anche di quello linguistico. Per i «minori con cittadinanza non italiana», la legge prevede la possibilità di «usufruire di un piano didattico individualizzato e personalizzato», ma solo in via eccezionale, soprattutto alla scuola secondaria, dove alternativa più frequente è utilizzare le due ore di seconda lingua comunitaria per arrivare a padroneggiare l’italiano. Senza perdere di vista la lingua straniera, però, sulla quale tutti, alla fine, vengono valutati «nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani».
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Il ministro, precisa il Corsera, ha detto di voler «attrezzare una generazione di maestri e professori per l’insegnamento linguistico agli alunni stranieri», come ha confermato il sottosegretario Toccafondi. Questione di un paio di Consigli dei ministri, fanno sapere al Miur e anche a «Italiano L2» si accederà con un percorso abilitante, così come richiesto per le altre materie. Un’occasione, per i docenti di «L2», che al momento non sono inseriti in graduatorie e hanno limitate possibilità di svolgere la propria attività nelle istituzioni scolastiche, pubbliche e private. Ma anche un nuovo dilemma da sciogliere: quanti insegnanti servono? I soldi, ci sono?
Intanto, è stata avviata la ricognizione. Non semplice, sono diverse le figure coinvolte: insegnanti «distaccati» (i facilitatori linguistici); specialisti con formazione specifica; insegnanti di scuola che prestano servizio «diffuso». E gli esterni: studenti universitari, volontari.
L’insegnante specialista sembra dunque essere come una delle soluzioni possibili («non necessariamente la migliore, richiede tempi lunghi» – sostiene Vinicio Ongini, esperto di multiculturalità), ma forse «costo e alibi per gli altri, per togliersi da sotto l’ombrello della responsabilità».
Inserire subito i «neoarrivati», evitando liste d’attesa e trasferimenti continui, dicono gli esperti; sì ai piani personalizzati, ma che abbiano valutazioni finali coerenti; più orientamento; più coinvolgimento delle famiglie. La peer education, poi, è una risorsa: «importante coinvolgere gli altri studenti», dice Ongini. Formare tutti: dirigenti, insegnanti, personale; far passare l’idea che «accogliere i mondi» nelle classi, «può essere un problema, ma anche un’opportunità, un laboratorio di convivenza e di nuova cittadinanza». Appannaggio non necessariamente degli specialisti, ma di bravi insegnanti.
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