Attualità

Per i giovani l’Italia è matrigna: quali scelte l’hanno resa così? La colpa è della scuola non “attenta alle dinamiche del lavoro”?

Possiamo onestamente sostenere che l’Italia sia un Paese per giovani? O meglio, siamo certi che lo Stato italiano offra ai giovani la certezza di un premio per gli sforzi di chi studia onde prepararsi al mondo del lavoro, rendersi utile alla società e trovarvi una collocazione soddisfacente e proficua per la collettività?

Da decenni, politici e governanti lamentano il crollo delle nascite: «È stimato un calo demografico del 17% da qui al 2050. È una tragedia», diceva il ministro dell’istruzione Bussetti nel marzo 2019 intervenendo al “Congresso mondiale delle Famiglie” di Verona; «ha ripercussioni fortissime anche sulla scuola, come si nota già in questi ultimi anni guardando ai dati della diminuzione del numero degli studenti. Le previsioni demografiche sono poco incoraggianti».

Davvero è solo colpa dei “bamboccioni”?

Di chi la colpa? Unicamente dei giovani, autoreferenziali ed egoisti, i quali, anziché metter su famiglia, giocano a fare i “bamboccioni” a ricasco di papà e mammà fino a 40 anni? Cosa è stato fatto nell’ultimo mezzo secolo per favorire l’uscita di casa dei giovani? Nei Paesi civili d’Europa da decenni si garantiscono agli studenti aiuti consistenti fino alla laurea, onde non farli gravare sulla famiglia. In Italia nulla di tutto ciò: al contrario, numero chiuso in molti corsi di laurea, e tasse universitarie altissime.

Per favorire la natalità, nell’Europa civile asili nido pubblici a basso costo e sussidi di vario tipo a maternità e paternità. Nello Stivale — dove il lavoro è sempre più precario — posti rarissimi in asili nido e scuole materne pubblici; oppure asili privati, cari e con diffusione sul territorio disomogenea.

La gara ad “abbassare il costo del lavoro”

Dei giovani ci si ricorda quando si cerca di farli votare per il proprio partito, oppure come target delle campagne pubblicitarie. Di conseguenza moltissimi giovani continuano ad espatriare, spesso dopo la laurea: in media, 130.000 ogni anno dal 2012 al 2021, con un’età dai 20 ai 39 anni. Quasi un terzo di questi giovani è laureato.

Ciò non accade per caso. Il nostro Paese non assicura nemmeno i diritti riconosciuti da Costituzione e leggi. Nulla di concreto si fa per evitare le scappatoie cui troppi imprenditori ricorrono per “abbassare il costo del lavoro” (ossia per diminuire le retribuzioni in modo “legale”). Nulla vien fatto per assorbire il precariato della Scuola: lo Stato ha anzi progressivamente aumentato dismisura il numero di docenti precari, risparmiando miliardi sulla loro pelle.

Carriera universitaria? Per pochissimi, e dopo decenni di spremitura

Nulla si fa per evitare lo sfruttamento cui alcuni docenti universitari sottopongono per molti anni — a volte decenni — laureati e dottori di ricerca, col miraggio di un ruolo all’interno delle università: ruolo spesso destinato a restare un miraggio. Nulla si fa per garantire una fonte di reddito per giovani meritevoli in questa situazione: per finanziarla, secondo alcuni basterebbe tassare le ricchezze superiori ai 35 milioni di euro. Al contrario, si preferisce continuare con un sistema che produce e garantisce le diseguaglianze, impedendo — sic et simpliciter — ai ceti meno abbienti la carriera universitaria.

Fuga dalla pazza Penisola

Primo risultato di tutto ciò: quasi un quarto degli studenti delle superiori progetta di trasferirsi immediatamente all’estero subito dopo il diploma di maturità, sia per lavorare sia per studiare. Anche quanti frequenteranno l’università, infatti, pensano che le università italiane — pur prestigiosissime — non permettano di trovare lavoro. Uno studente su tre non riesce proprio ad immaginare il proprio futuro; uno su tre lo immagina invece possibile, ma solo all’estero. Uno su due è comunque convinto che in Italia non esistano opportunità concrete.

«Non è un Paese per giovani». Ipsa dixit

«L’Italia non è un Paese per giovani. L’Italia si è disinteressata del loro futuro, persino del fenomeno dei giovani che si autoescludono dal circuito formativo e lavorativo»: parola della presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni. La quale non è precisamente “homo novus” nel panorama politico, essendo stata la più giovane ministra — “per la gioventù”! — della storia italiana nell’ormai lontano 2008 (quarto governo Berlusconi), e da allora sempre presente in Parlamento (se non nell’area governativa). Eppure la presidente del Consiglio coglie al volo la preziosa occasione per pronunciare parole graditissime a larghi settori del mondo imprenditoriale: «Serve colmare il grande divario esistente tra formazione e competenze richieste dal mercato del lavoro con percorsi specifici, certo, ma ancor prima grazie a una formazione scolastica attenta alle dinamiche del lavoro». Quasi che — come sempre — la colpa delle difficoltà dei giovani fosse della Scuola, avulsa dalla realtà perché libresca, attardata, campata sulle nuvole ed obsoleta.

“Colpa della Scuola”? O della classe dirigente?

Mai la responsabilità del declino italiano (e del crollo delle speranze per le giovani generazioni) viene addossata ai veri responsabili: una classe dirigenziale e politica che ha orientato il timone del Paese verso le incognite del neoliberismo, svendendone a privati straricchi (spesso stranieri) l’industria pubblica, il sistema bancario pubblico, l’impresa pubblica, e smantellandone progressivamente il welfare, le garanzie per i lavoratori, la sanità pubblica, la pubblica istruzione.

Non è forse a causa di queste scelte suicide (a vantaggio di pochissimi miliardari, italiani e non) che l’Italia ha perso in 30 anni qualsiasi rilevanza geopolitica? O l’ha perduta perché la formazione scolastica non è abbastanza “attenta alle dinamiche del lavoro”?

Alvaro Belardinelli

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