Lo scrive Italia Oggi. Come è noto infatti l’ex ministra dell’istruzione Mariastella Gelmini, sull’onda delle famose tre “I” berlusconiane, introdusse la metodologia Clil, l’insegnamento cioè di una materia non linguistica in lingua straniera, che da quest’anno è diventata obbligatoria per il V anno dei licei e degli istituti tecnici, dopo l’avvio sperimentale nei linguistici dove parte già dalla III.
L’obiettivo, confermato anche dalle Linee guida del governo Renzi, era quello di portare gli studenti durante il proprio percorso di studi «almeno a un apprendimento di livello B2 per la lingua straniera principale», secondo un sano ragionamento per cui, oltre alle ore curriculari di lingua straniere, si aggiungessero anche quelle di un’altra disciplina.
Ma come sempre accade in queste cose, e anche in altre purtroppo, si fanno i conti senza l’oste e in modo particolare senza tenere conto della formazione dei docenti.
Per diventare insegnate infatti di Clil, occorre un’abilitazione in materia non linguistica con un livello almeno C1 di conoscenza della lingua straniera, livello che è stato il vero problema , acuito dai ritardi del Miur nell’attivare i corsi di formazione per gli insegnanti interessati, per cui è stato giocoforza, scrive Italia Oggi, abbassare i requisiti richiesti ai docenti.
“Da una parte i corsi per la formazione stati attivati a partire dal 2013-2014, dall’altra il livello di competenza della lingua veicolare non è più lo C1. Basta anche solo un B2, cioè quello chiesto agli studenti alla maturità e confermato come obiettivo anche nella Buona Scuola.
Non solo. Se un insegnante sta frequentando un corso di abilitazione al Clil, il livello richiesto si abbassa ulteriormente a B1, quello fissato alla fine del biennio delle superiori.
C’è, poi, la questione del mancato riconoscimento del merito. Motivo per cui docenti di materia non linguistica (es. storia) che già avrebbero le competenze linguistiche necessarie per insegnare in Clil hanno scelto di non farlo, perché sarebbe solo un impegno aggiuntivo senza riconoscimento della propria specializzazione. Del merito, appunto”
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