La Legge 92 del 20 agosto 2019 induce, da un anno a questa parte, i Collegi dei Docenti ad un superlavoro per capire come organizzare la trasversalità di questo insegnamento, giustamente considerato fondamentale in un Paese democratico che voglia tutelare la propria democrazia. La novità di questa legge consiste nel fatto che tutti i docenti, di qualsiasi disciplina, sono tenuti ad insegnare anche l’educazione civica. Precedentemente lasciata indietro come Cenerentola, solo i docenti delle materie umanistiche ne lambivano alcuni concetti, fondamentali per lo studio della Storia e della cultura.
Prima di cimentarsi in questo insegnamento, comunque, sarà bene riflettere sulla nostra Costituzione, e sui principi che la ispirano; affinché il docente che ne parla sia convinto dell’importanza di questi principi, onde poter trasmettere ai discenti una tale consapevolezza.
L’articolo 1 è di importanza fondamentale per la convivenza civile in questo Paese: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Dunque l’Italia è “cosa pubblica”, del popolo. Appartiene a tutti, donne e uomini: non ad un monarca che l’abbia ottenuta per diritto divino e in via ereditaria; non ad una nobiltà di reggicoda del monarca; non ad un clero né ad una religione; non ad un partito politico; non ad un tiranno; non ad una dottrina politica o filosofica (o economica).
Ne consegue che tutti sono corresponsabili e compartecipi di questa “cosa pubblica”: nessuno escluso. Non solo, ma questa res publica, questa “cosa” che è di tutti, è democratica.
Ossia si dà un’organizzazione in cui il “kratos” — ossia il potere (anche coercitivo) dello Stato — si esercita in nome e per conto del “demos”: ossia del popolo; ovvero di quei “tutti” cui anche l’aggettivo latino “publica” (riferito a “res”) rimanda.
Ebbene l’Italia, oltre ad essere una Repubblica, ed oltre ad avere forma democratica, non poggia le proprie fondamenta sul privilegio, né sul potere del denaro e della ricchezza, né sulla dinastia, né sui nobili natali; ma sul lavoro. Per capire quanto questa affermazione sia rivoluzionaria, basti riflettere sul fatto che, dalla notte dei tempi fino alla presa della Bastiglia, il lavoro era qualcosa di cui vergognarsi. Lavoravano gli schiavi, i poveri, i plebei; la cui pelle si abbronzava al sole, mostrando la necessità, per loro, di lavorare per vivere. Gli altri, gli “àristoi”, gli “eupatrìdi”, gli “olìgoi”, i “patricii”, gli “optimates”, i “nobili”, i ricchi, nonché i sacerdoti, avevano la pelle bianchissima, non dovendo mai esporsi al sole per andare al lavoro: il che dimostrava e confermava la loro superiorità, e la possibilità — di cui loro soli godevano — di meditare, studiare, creare nell’otium filosofico (la “scholé” del mondo greco), precluso ai più.
La Costituzione del 1948, con quella sua solenne attribuzione al popolo della sovranità (concepita come diritto naturale di tutti noi, proprio in quanto persone che che nel lavoro realizzano la propria dignità di persone), incarna i valori per cui tanti giovani lottarono e morirono durante il Risorgimento e durante la Resistenza al nazifascismo. Il tricolore (senza stemmi monarchici al suo centro) è lo stesso per cui Romani e Italiani di tutta la Penisola (e cittadini di varie parti d’Europa) difesero la Repubblica Romana nel 1849 e la sua Costituzione, proclamata il primo di luglio di quell’anno, mentre le truppe reazionarie francesi invadevano la Città Eterna dopo averla assediata e barbaramente bombardata per un mese.
I primi due articoli della Costituzione di quella gloriosa piccola Repubblica sono perfettamente sovrapponibili alla nostra, e quasi la preconizzano. Articolo 1: «La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica». Articolo 2: «Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta».
No, decisamente l’Italia non è (solo) il Paese della pizza, del mandolino e delle mafie. L’Italia è anche il Paese che ha saputo — malgrado i molti ignavi, i troppi indifferenti e gli altrettanti ipocriti spesso presenti nella sua società — scrollarsi di dosso millenni di brutture, ingiustizie e menzogne; è il Paese che ha saputo sognare un’inversione di tendenza radicale, basandosi sulla propria Storia trimillenaria (cui tutto il pianeta si abbevera da sempre), salendo sulle spalle dei giganti del proprio passato per mirare la visione di un mondo in cui tutti, ma proprio tutti e tutte, possano gioire della bellezza, della giustizia e della verità.
Chi insegna educazione civica, se vuole che veramente questo insegnamento sia utile per migliorare il futuro, dovrà finalmente convincersene. Così come il Legislatore dovrebbe convincersi che questa disciplina meriterebbe finanziamenti atti a procurarle uno spazio suo proprio, che non intaccasse il monte orario delle altre materie.
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