In Italia per la Scuola «non ci sono i soldi». Male ineluttabile? Eppure per le spese militari si trovano molti miliardi. I quali arricchiscono solo alcune aziende e i loro miliardari azionisti.
È credibile che in Italia non ci siano i capitali necessari per ricostruire norma di sicurezza scuole moderne e accoglienti, assumere il personale per comporre classi di 20 alunni (anziché di 30-35), e pagarlo con salari dignitosi?
L’Italia è ottava nel pianeta per PIL nominale (dati FMI 2023). Anche per PIL a parità dei poteri d’acquisto, l’Italia è al dodicesimo posto nel mondo, e supera comunque potenze come Spagna, Canada, Australia, Paesi Bassi, Sudafrica, Belgio, Svizzera.
Eppure, secondo i dati ISTAT 2016, rispetto al PIL l’Italia spende per l’istruzione il 3,3%. Paesi meno ricchi investono sulla Scuola una fetta ben maggiore delle proprie risorse. La Spagna spende il 4% del PIL. Il Canada il 5,2%, come l’Australia e il Belgio. I Paesi Bassi il 4,6%. La Svizzera il 4,8%.
Il Sudafrica nel 2023 ha speso il 6,6% (dati UNESCO). Persino la poverissima Etiopia spende più di noi per la Scuola rispetto al PIL: 3,74%.
Per spesa militare, in valore assoluto, l’Italia è dodicesima sul pianeta: quasi 32 miliardi di euro nel 2022 secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute). Destiniamo all’esercito l’1,68% del PIL. Per capirci, un colosso come la Cina (seconda per spesa assoluta dopo gli USA) è ferma all’1,6%; la Germania è all’1,39%, il Giappone all’1,08%, il Canada all’1,24%, la Spagna all’1,47%, il Brasile all’1,05%, i Paesi Bassi all’1,58%). Lo Stato italiano si è comunque impegnato con la NATO — già dal precedente governo Draghi — portare la spesa al 2% del PIL e a partecipare alle attività di “sicurezza” internazionale.
Son dunque le armi l’unica variabile indipendente dello Stato italiano? Ambiente, sanità e istruzione contano poco o nulla rispetto alla guerra? Nello scorso dicembre la legge di bilancio del governo Meloni ha stanziato altri dieci miliardi per gli armamenti, zero per salute e Scuola. Quasi nove miliardi erano già stati investiti in bombardieri e caccia. Molti nostri politici, pur proclamandosi ultracattolici e brandendo croci e rosari fini elettorali, non ascoltano affatto i continui appelli di papa Francesco per ridurre le spese militari. Cosa molto difficile da spiegare agli studenti quando, in educazione civica, si affronta lo studio dell’articolo 11 della Costituzione. Anche perché c’è persino una legge — la Legge 9 luglio 1990, n. 185 — che vieta l’esportazione di armi a Stati belligeranti.
Difficile dunque credere a chi promette aumenti di stipendio nella Scuola senza invertire la rotta rispetto a quanto programmato già nell’aprile 2022 dal governo Draghi: investimenti bellici per 15 miliardi di euro in più fino al 2026, 7,5 miliardi in meno all’istruzione in quattro anni, e tagli sugli stipendi per un punto di PIL fino al 2025.
Intanto l’industria bellica produce profitti miliardari — non del tutto controllabili dal fisco — e dividendi stratosferici per gli azionisti; morte e distruzione per tutti gli altri. Pecunia non olet.
Dei profitti miliardari, tuttavia, solo pochissimi beneficiano. In Italia se ne giovano soprattutto le multinazionali Beretta S.p.A. (la più antica produttrice d’armi da fuoco del mondo, fondata nel 1526) e Leonardo S.p.A. (ex Finmeccanica), controllata per il 17,2% da investitori individuali, per il 50,8% da investitori istituzionali e per il 30,2% dal MEF.
I soldi (pubblici) che armano l’esercito italiano foraggiano i profitti (privati) di chi fabbrica macchine di morte: industriali italiani in primis; ma anche belgi e austriaci (pistole), tedeschi e USA (fucili d’assalto), britannici (fucili di precisione), francesi (mortai), svedesi (veicoli speciali), israeliani (missili anticarro).
Un’economia parallela, sovraordinata a quella visibile, condiziona tutto il resto senza rumore. Interessa i veri padroni del mondo, ma è quella di cui meno si parla.
Non a caso, forse, l’attuale governo pensa a riarmare fino ai denti la Penisola. Ultimo progetto: un sommergibile nucleare italiano, il cui studio di fattibilità (incarico di ricerca da 2,094 milioni di euro) è stato commissionato dal Segretariato generale della Difesa a Fincantieri e Università di Genova. Costosissimo, lungo più di un campo di calcio, darebbe senso al ritorno al nucleare voluto dal governo (e annunciato a Baku da Meloni alla COP29 sul clima), facendoci sentire grande potenza. Poco importa se istruzione e salute vanno a farsi benedire. Tout se tient.
Nel 1947 il trattato di pace di Parigi impose all’Italia sconfitta pesanti limitazioni al riarmo, che imponevano il divieto di acquisto e costruzione di armi atomiche, nonché la riduzione di esercito, aviazione e marina. Il riarmo italiano fu poi permesso all’Italia nel 1951, ma solo in funzione NATO.
La limitazione delle spese militari fu tra i fattori che permisero all’Italia il boom economico successivo. Anche le altre due potenze sconfitte nella seconda guerra mondiale, Germania e Giappone, beneficiarono del non poter bruciare troppi miliardi per armamenti. È la prova — non indispensabile — che fare a meno delle armi non solo è possibile, ma anche benefico per la collettività.
Tuttavia, malgrado questa evidenza, sempre e comunque per la Scuola del Paese di Pulcinella «non ci sono i soldi».
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