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Per sconfiggere il disagio esistenziale, gli adolescenti devono sentirsi parte attiva di una comunità. Nel suo ultimo saggio Annalisa Quinto bacchetta anche la scuola

Gli adolescenti sono realmente tutti “ragazzi difficili”? E l’adolescenza è davvero un’età senza futuro e senza cittadinanza? Sono queste le domande alle quali ha cercato di dare una risposta Annalisa Quinto nel suo saggio da poco pubblicato da Franco Angeli, “Adolescenti, disagio e educazione alla cittadinanza”. Quinto, ricercatrice dell’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum” presso la Cattedra Unesco in Educazione alla Cittadinanza Globale, individua  nell’educazione alla cittadinanza attiva e globale e alle competenze non-cognitive una delle vie da percorrere attraverso cui reagire alla complessa sfida del disagio esistenziale giovanile.

Intervistata dal quotidiano Avvenire, la giovane ricercatrice è stata chiara: perché superino le difficoltà emotive e comportamentali che emergono sempre più precocemente, è necessario fare in modo che gli adolescenti diventino cittadini e che si sentano parte di una comunità.

In questo senso, i dati sono spietati: nella fascia di età dai 10 ai 19 anni nel mondo sono 89 milioni i ragazzi e 77 milioni le ragazze adolescenti che soffrono di disturbi mentali, ansia e depressione in testa. Uno su sette, pensate.

Nel suo libro, Annalisa Quinto declina il disagio secondo una prospettiva psicopedagogica che lo definisce come la difficoltà delle nuove generazioni ad assolvere i “normali” compiti evolutivi che vengono richiesti dal contesto sociale di appartenenza e che servono per costruire la propria identità.

Alcuni studiosi, continua la ricercatrice, sostengono che questo tipo di disagio nasca da una sensazione di fallimento che i ragazzi e le ragazze oggi vivono in seguito all’aver sperimentato in maniera ripetuta che le proprie abilità non risultano adeguate per far fronte alla situazione complessa che vivono.

Alla domanda dell’intervistatrice che le chiede se il vero problema non sia la complessità del mondo attuale, Quinto risponde che il vero problema – a suo avviso – è  la mancanza di desiderio. I ragazzi e le ragazze hanno difficoltà a progettare la propria vita. Per comprendere meglio il disagio, è importante che questo sia letto non come un contenuto unicamente riconducibile alla sfera individuale e psicologica, ma anche da un punto di vista interdisciplinare e globale.

Ed eccoci al ruolo che la scuola dovrebbe avere, al taglio pedagogico che dovrebbe dare ai propri interventi educativi per fare fronte a questo enorme problema.

L’educazione – sostiene Annalisa Quinto –  svolge un ruolo cruciale. Non può più limitarsi a una mera trasmissione di conoscenze, ma deve aiutare ragazzi e ragazze a conquistare piena consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale. Quello, cioè, che con un solo termine gli inglesi chiamano empowerment. In questa prospettiva, l’educazione dev’essere intesa come un processo che aiuta gli adolescenti a sviluppare senso critico, capacità di pensiero autonomo e competenze che li rendano capaci di agire nei propri contesti di vita. Il rischio, sempre presente, è invece che l’educazione non comprenda e non si adegui ai mutamenti che gli individui e le società stanno vivendo. Continuando a proporre modelli e pratiche ormai anacronistiche o proponendo processi di conoscenza arretrati. In questo senso l’Unesco – continua la ricercatrice – in uno dei  suoi ultimi report ha sottolineato la necessità di un nuovo contratto sociale per l’educazione basato sulla cooperazione e sull’interdipendenza. Occorre cioè ripensare il ruolo della scuola e degli ambienti educativi, come luoghi in cui i giovani possano sperimentare forme di partecipazione attiva, apprendere attraverso esperienze significative e sviluppare un senso di responsabilità nei confronti della collettività. L’adolescente, in poche parole, deve sentirsi parte di una comunità.

Gabriele Ferrante

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