La Scuola italiana è un po’ la rappresentazione del Paese.
Cercherò di spiegare tale affermazione che non ha un significato immediatamente percepibile, tranne per l’alea vagamente critica. L’Italia è un grande Paese, si sa, e continua a esercitare il fascino dell’eterna incompiuta, una forza di potenzialità inespresse. Proprio in tale direzione vorrei esercitare il mio appunto critico, ponendo l’indice sulla costante destrutturazione di tali potenzialità.
La Scuola è sempre stata considerata solo per il proprio potenziale elettorale, rinvigorita per quantità e mai per qualità, basse paghe in cambio di un impegno commisurato alla dignità con cui ogni insegnante avesse inteso rappresentarsi. Gli edifici sempre stati fatiscenti, le palestre un optional, basti pensare ai licei linguistici ultimi nati poiché necessitanti di un investimento troppo oneroso, i laboratori!
Per tutti -studenti e docenti- grande libertà! Di pensare, di insegnare, di impegnarsi, di offrire contenuti innovativi, di sperimentare, di fare politica. Certo, anche libertà di disimpegno e minimo indispensabile, di energie profuse altrove piuttosto che nello studio e nel lavoro.
La scuola era un mondo strano, una terra di nessuno dove s’incontravano le personalità più disparate, professionalità eteroverse, rivoluzionari col maglione di cachemire, geni ribelli, costruttori di progettualità che magari venivano riversate al di fuori della scuola, ma tutto ciò era restituito nelle aule in termini di vitalità della scuola e in forma di esperienze e novità espressive e laboratoriali.
Così è stata la scuola che ha nutrito l’università e il mondo delle professioni; la classe dirigente dei cinquanta-sessantenni ha avuto come modello una classe d’insegnanti magari non stacanovista, ma appassionata, capace di trasmettere il piacere per la cultura e in grado di esaltarla quale valore assoluto, per formare persone e cittadini che avessero voglia di essere significativi per la società, ritagliando ognuno il proprio ruolo quale frutto maturo dell’impegno profuso.
E non importava che strumenti e strutture alle volte fossero improvvisate (io stesso ho frequentato le lezioni in locali alla strada senza finestre, con tanto di palestra nel sottoscala), poiché si viveva respirando ottimismo, infischiandosene dei muri sporchi e delle finestre rotte.
Ad un certo punto, qualcuno ha preteso di misurare la Scuola italiana.
1) Inizialmente, si vollero misurare le ore di lavoro dei docenti, paventando che lavorassero pochissimo, che facessero lezioni a nero nel tempo libero; si disse che occorreva operare un processo di valutazione e un obbligo di formazione continuo.
In seguito, la misurazione colpì gli studenti, considerati meno capaci nelle materie scientifiche, meno propensi all’apprendimento di informatica e lingua inglese (accusa paradossale, in mancanza degli strumenti di apprendimento, computer e altro).
Poi è arrivata l’Europa. La misurazione è diventata più scientifica. I test PISA a dispetto dell’assonanza nostrana di italiano non possedevano nulla, erano criteri misuratori imposti dall’OCSE, il cui principale obbiettivo non era certo la crescita dei nostri giovani ma la loro funzionalità assoggettata al sistema produttivo -Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico-.
Dal 2007 la misurazione venne fatta in casa, grazie alla nascita dell’Invalsi, ma le cose non sono cambiate.
Vorrei essere chiaro: non sono fautore dell’eliminazione della valutazione, anzi. Vorrei che si comprendesse che la valutazione non è il punto d’arrivo di un percorso formativo ma assume essa stessa una concretezza pedagogica.
L’Invalsi è stato costruito con le modalità metodologica dei test Pisa, ovvero partendo dal presupposto che si possano misurare apprendimento e competenza: come non rendersi conto che rispondere a un test è di per sé una forma di apprendimento e competenza?
Occorre sottolineare che la tradizione italiana non possiede la cultura valutativa in ragione della somministrazione di test (metodo comodo e che ostenta oggettività), poiché tale modalità fa parte della docimologia anglosassone che ora stiamo acriticamente importando.
Alla prima ora, i test Invalsi furono sabotati, contestati dai migliori pedagogisti –tranne da coloro che ci lavoravano sopra-, ma il tutto fu inutile: come è stato possibile non rendersi conto che l’introduzione di tale sistema di valutazione sarebbe stato destinato a sovvertire ogni metodo d’insegnamento pregresso?
L’effetto perverso dell’introduzione dei test nella scuola italiana ha indotto i docenti non già a insegnare per formare giovani menti, ma per indirizzarle alla corretta esecuzione dei test, divenuti incubo per gli insegnanti che, attraverso i risultati ottenuti, avvertono di essere loro stessi valutati – i Dirigenti hanno favorito tale percezione -.
In sintesi: l’introduzione di criteri valutativi uniformi sta determinando l’omogeneizzazione di metodi e oggetti di formazione, il che potrebbe anche essere ben accolto dai fautori del pensiero unico. Purtroppo, l’introduzione di tale modello sta depauperando la scuola italiana della propria peculiarità. In forza di autonomia e differenziazione, a cui i docenti in passato tendevano, i giovani italiani potevano attingere a svariati modelli formativi, metodologici, a differenti registri linguistici, testi e manuali divergenti; al contrario, con l’avvento dell’era Invalsi, l’uniformità funzionale dell’insegnamento – fare bene i test! – si traduce in un appiattimento deresponsabilizzante della classe docente a cui consegue un graduale processo di trasformazione dell’antropotipo italico.
Fantasia, capacità di adattamento e sacrificio, empatia, appassionabilità, senso estetico, serendipità e, perché no, amor di patria, possono anche essere considerati stereotipi, ma letteratura e cinematografia hanno offerto tale spaccato del nostro Paese rendendolo, già dall’indomani della Seconda Guerra punto di riferimento dell’immaginario straniero, il cosiddetto brand. Faccia riflettere il dato che, malgrado nel numero di lauree scientifiche e nell’investimento statale sulla scuola il Paese sia fanalino di coda dell’area Ocse, gli italiani sono decimi per quantità di brevetti depositati il 2017 (fonte: F. Chiesa, Corsera).
Modificare la scuola significa alterare l’identità delle future generazioni, con conseguente ricaduta, oltre che sul piano umano e identitario, anche su quello competitivo ed economico.
2) Altra peculiarità della scuola italiana è data dal fatto che, nascendo barbianamente povera, è sempre stata tutta teorica. Nelle nostre scuole non era possibile educare al learn by doing deweyano perché mancavano risorse, laboratori, spazi espressivi. Quindi si studiava sui libri, si seguiva il maestro, si perseguivano più le costruzioni logiche astratte di tipo matematico-filosofico e meno le sperimentazioni fisico-chimiche.
Nel passaggio dalla scuola all’università – slegata anche quest’ultima dal lavoro -, i nostri giovani giungevano capaci di impostazione speculativa, formando differentemente le proprie intellettualità e professionalità, competitive nel confronto con l’estero. I nostri laureati, capaci di teoresi e metodo, posti in situazione, apprendevano in seguito velocemente la professione e, soprattutto, sapevano rinvigorirla con contenuti innovativi.
Invece di capire e accreditare le peculiarità del nostro sistema formativo, abbiamo inteso esaltare i nostri limiti: l’accusa mossa ai laureati che ‘non avrebbero esperienza del mondo del lavoro’ è ricaduta per l’ennesima volta (sic!) sulla scuola, a cui tocca ora formare i giovani alla concretezza dell’Alternanza Scuola Lavoro.
Per gli estensori sono sembrati pochi capoversi in una Legge, ma per gli operatori della Scuola è stata una dichiarazione esplicita della poca conoscenza del mondo che si intendeva normare; ancora una volta si accusavano velatamente le istituzioni formative di omissioni senza che ci fossero mai stati i presupposti normativi ed economici per poterle colmare. Gli istituti tecnici, alberghieri, linguistici, e in generale a indirizzo vocazionale, già avvicinavano i giovani a stage preconfezionati per introdurli nel mondo del lavoro.
Il paradosso è stato costringere gli studenti dei Licei –discrasia avvertita soprattutto nei classici e scientifici- a ben duecento ore di Alternanza Scuola Lavoro, non necessariamente ulteriori alle ore di lezione. Tale disposizione di Legge mostrava che non si fosse compreso come il mestiere dei liceali sia quello di studiare e costruire un metodo di autoapprendimento; eppoi, come dare ragione delle tante vocazioni professionali presenti all’interno dei licei?
La fantasia dei dirigenti costretti a corrispondere alla legge, soli e senza fondi necessari, è stata eroica: ogni possibilità trasformata in esperienza lavorativa, spesso col placet degli studenti disposti anche a fare qualche fotocopia pur di saltare una lezione di greco. Ancora una volta, per appararci fittiziamente a modalità europee abbiamo tradito la nostra scuola, nella fattispecie il Liceo che predispone lo studente all’individualità e al senso critico, fondamentali per una scelta universitaria, professionale, civica. Ai giovani liceali andrebbero suggeriti percorsi che consentano loro di esperirsi nel settore lavorativo da essi stessi meditato. Si potrebbe immaginare che i futuri giuristi frequentino tribunali e avvocati, potenziali architetti si sporchino in cantiere, medici in pectore si confrontino col sangue e il dolore: invece no! Se tutto va bene fanno fotocopie, altrimenti eccoli ammassati a seguire lezioni sulla ‘sicurezza dei luoghi di lavoro’, oppure vengono trasformate in stage-lavoro le vecchie visite d’istruzione. Valga ogni cosa pur di coprire le famigerate duecento ore, comunicando che lo studio può essere immolato sull’altare del fare.
3) La legge vigente ha offerto una forte spinta in direzione dell’autonomia delle scuole, sulla carta sono enti, in primis coinvolgendole nella ‘raccolta di fondi’ –evitiamo gli anglismi che denunciano la mancanza di originalità della prospettiva legislativa-. L’autonomia e il contributo economico statale si ottengono in virtù del dimensionamento; corollario della capacità attrattiva della singola scuola, in termini di denaro e studenti, è il livello di qualità raggiunta che viene autocertificato col Rapporto di Auto Valutazione. Quest’aspetto della legge si espone a molteplici paradossi: praticamente, la scuola dovrebbe sancire il proprio eventuale basso livello che consequenzialmente indurrebbe un decremento della capacità di attrarre fondi e studenti, portandosi fino all’orlo della diminuzione di numero quindi all’accorpamento –con la probabilità che il dirigente perda la sede-.
Tale intreccio ha prodotto una sorta di battaglia tra le scuole, anche a suon di carta bollata, intese ad accaparrarsi studenti pur di sopravvivere. Abbiamo potuto assistere al proliferio di manifestazioni pubbliche organizzate dalle scuole, ma anche a campagne pubblicitarie degne di miglior sorte, che distraggono denari altrimenti focalizzati per la formazione e il fare-scuola.
Sarebbe un’offesa all’intelligenza del Lettore se dedicassi troppo spazio al problema della valutazione e selezione degli studenti, inevitabilmente più lassa laddove s’intenda promuoverne il numero e non la qualità, incontrando il favore delle famiglie che, come la recente cronaca insegna, sono restie ad accettare che i criteri selettivi siano esercitati sui propri figli.
4) I docenti sono il vaso di coccio di questa palingenesi della scuola italiana –in verità, a rompersi sono i nostri giovani ma se ne accorgono quando oramai è tardi- che osservano senza più protestare, hanno scoperto che è inutile, anzi offrendosi inerti al cambiamento di paradigma. La critica protestataria, seppur anti-sistemica, dovrebbe essere carburante per coloro che intedano promuovere forza e passione, e proporsi a modello per i giovani; al contrario, l’acquiescenza trasferisce sull’interlocutore un senso di passività.
I docenti hanno subìto la diminuzione del loro peso politico e sociale –lo hanno capito anche i giovani che li vessano, complici le famiglie, forti del senso d’impunità che li invita a pubblicare sui social le proprie imprese ai margini tra bullismo e delinquenza-; insegnanti ridicoleggiati dal bonus che permette loro di andare a cinema, comprarsi un libro, oppure il tablet necessario per espletare la crescente burocrazia scolastica; privi di un cursus honorum, in una realtà lavorativa che non possiede significativi scatti di carriera -a meno che non si faccia il concorso per dirigenti, il che equivale a cambiare lavoro e a non insegnare più-; un settore dove il maggior impegno –non solo quello morale, ma anche l’impegno tangibile sancito da incarichi ufficiali delle cosiddette figure di sistema senza le quali la Scuola non funzionerebbe- non viene compensato né economicamente, né tanto meno istituzionalmente. Tutto ciò si ritorce sul sistema selettivo dei docenti che, paradossalmente diviene sempre più compresso e stringente. Il declassamento sociale che la figura del docente ha subito nell’immaginario collettivo italiano ha prodotto l’inappetibilità della professione docente tra le aspettative professionali delle migliori menti, le quali si indirizzano verso altri settori. O vanno all’estero.
Se un sistema istituzionale non riesce ad attirare le migliori intelligenze verso la formazione delle future generazioni, ovvero, mancando di indirizzarle per rendere plausibilmente migliore il futuro del Paese, ha omesso il proprio compito.
In passato ho scritto che tale devoluzione della scuola pubblica –attuata per dare un senso all’intrapresa privata nel settore della formazione- fosse il risultato che la politica avrebbe voluto consapevolmente perseguire, e tale risultato sembra sia stato quasi conseguito, basta poco.
Siamo giunti al momento storico in cui il Legislatore dovrà rendere evidenti i propri obbiettivi: completare lo svilimento della funzione paradigmatica della Scuola Pubblica oppure rilanciarla, restituendole le peculiarità italiane che si stanno disperdendo, ricostruendola a partire dalla riproposizione chiara della necessaria autorevolezza istituzionale che i docenti assumono in qualità di funzionari dello Stato.
La scuola non è un contenitore asettico, è un luogo di persone che intrecciano professionalità, sapere e sentimenti: un gesto legislativo proteso a riconoscere il valore dell’istituzione e restituire la responsabilità ai suoi operatori potrebbe ottenere repentini e positivi effetti, emblematici per tutto il sistema Italia.
Nicola Tenerelli
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