Categorie: Attualità

Perché diventare insegnanti: passione per il mestiere o ricerca del posto fisso?

L’assalto dei giovani alle supplenze l’ho vissuto in questi mesi attraverso tanti colloqui con ex allievi laureati che mi hanno chiesto un parere sul lavoro di docente, sugli aspetti logistici, sulle prospettive, sui rischi precariato ecc..

Parlando con loro ho potuto vedere ed intuire nei loro occhi quanto di quel buono sono riusciti a respirare a scuola e all’università, soprattutto attraverso i propri docenti-maestri, delle perle rare. Quei docenti che hanno segnato la loro vita, le loro scelte.

E con loro mi sono permetto di rilanciare: quanta cultura hanno maturato oltre le nozioni, informazioni, i tanti frammenti di esami sostenuti.

Non in tutti, sono sincero, ho colto, ma sarà un mio difetto, questo respiro culturale. Sopraffatto, invece, dalla gestione, in termini di certezza e maschera sociale, delle nozioni apprese. Quello stesso atteggiamento che si coglie in quei docenti immacolati ai soli manuali, per il loro insegnamento. Solo ai propri manuali. Non più strumenti, ma fini.

Durante il colloquio della maturità, ma anche durante gli orali agli esami di concorso docenti, come nel colloquio della famosa “chiamata diretta”, ho sempre cercato l’oltre delle stesse informazioni. Quel quid che solo può dare il valore aggiunto, capace di condensare attitudine, passione, sensibilità, capacità di problematizzazione.

Perché dico questo? Perché non è facile dire che non tutti sono adatti a fare gli insegnanti.

A meno che si riduca il tutto alla sola ricerca di un “posto fisso”, cioè un ammortizzatore sociale. La scuola, infatti, è sempre stata vista come un ammortizzatore sociale, ruolo difeso strenuamente dal mondo sindacale, senza valutazioni di merito.

Per cui, se da un lato ha, idealmente, fatto piacere pensare che in così tanti abbiano puntato al mondo della scuola, dall’altro il pensiero è andato ai risultati, cioè a coloro che effettivamente, ed in ciò, lo sappiamo tutti, non valgono concorsi e sanatorie, hanno la qualità per assumere il ruolo di docente-maestro, come di preside-maestro, come per tutti gli altri ruoli nella scuola. Pensiamo, tanto per capirci, a quelle figure di collaboratori scolastici che sono dei veri compagni di viaggio significativi per i nostri ragazzi.

Ma il pensiero è andato anche a tutti quei giovani che, invece, hanno avuto la possibilità di un contratto, di una opportunità all’estero, preferendo questa, piuttosto del precariato nella scuola. Con la loro scelta o costrizione, però, non hanno depauperato anche le nostre scuole, come tutto il tessuto socio-economico?

Insomma, i giovani migliori sono stuzzicati dal lavoro docente, pensano cioè, come prima scelta al lavoro di insegnante? O solo come seconda scelta? E la scuola, come l’università, fanno di tutto per individuare questi giovani in gamba?

O vale solo la logica del mitico posto fisso, da agguantare, prima o poi? Se, cioè, prima con concorsi, poi con sanatorie varie. È sempre stato così, in Italia.

Quanti, oltre alla qualità culturale, sono in grado di gestire un gruppo, nei termini del facilitatore, promotore, suscitatore di coscienza? Cioè, di un “maestro”.

E l’università, per queste qualità, ha delle precise responsabilità?

Certo che le ha, se poi teniamo a mente le decennali critiche ai sistemi del suo reclutamento.

Ci sono docenti che sanno poco del valore culturale della propria materia, che sono in difficoltà a coordinare il gruppo-classe, ma sanno tutto di diritti, o presunti tali, di norme, di contratto, di ricorsi, di graduatorie.

Fino a che non cambieremo rotta su questi problemi aperti, difficile che cambi la percezione sociale del nostro “servizio”, compresi i legittimi adeguamenti contrattuali e stipendiali.

Oggi, fondamentalmente, la struttura dell’insegnamento è ancora individualistica, mascherata dietro la libertà di insegnamento male interpretata, e matematistica ed impersonale, per via delle graduatorie. Poco rispettosa, cioè, del valore persona.

Ma il valore persona ripone al centro il tema della scuola come comunità, con tutti i suoi vincoli e responsabilità, sapendo che il tutto vale sempre più della somma delle parti. E una comunità scolastica è comunque e sempre parte attiva di una comunità locale.

Per questo motivo andrebbero ridisegnati anche gli organi collegiali delle scuole, non più autoreferenti, come è ancora oggi, nei termini di un “bilancio sociale” e di valutazioni e verifiche che siano terze, e non più funzionali sono alla amministrazione scolastica, centrale e periferica.

Gianni Zen

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