Perché è importante l’istruzione tecnica, secondo Romano Prodi

Romo Prodi, già presidente del consiglio, sul Sole 24 Ore esprime la sua opinione relativamente al ruolo dell’istruzione tecnica nella scuola italiana.

Questo il suo intervento

Il nostro Paese ha bisogno di un forte rilancio dell’istruzione tecnica. Oggi siamo di fronte ad un vero e proprio dramma: i nostri Istituti tecnici, che hanno formato la classe di lavoratori e dirigenti dando certamente un forte impulso al nostro sistema industriale vivono una profonda crisi. Dal 1990 sul totale dei diplomati della scuola secondaria gli allievi degli istituti tecnici sono passati dal 44% al 35%, mentre quelli dei licei sono passati dal 30% al 45%: un calo drammatico dell’istruzione tecnica che si è appena arrestato negli ultimi 3 anni. Occorre mettere in chiara luce le cause di questo fenomeno.

La prima causa è la mentalità dei genitori che erroneamente ritengono gli istituti tecnici scuole di serie B. C’è perfino chi ha pensato che per frenare il calo forse dovremmo chiamarli “licei tecnici”: quando si arriva a questo tipo di pur ingegnosa scappatoia vuol dire che c’è un grande problema di incomprensione sociale. Per reagire mi sento di suggerire una urgente e sistematica campagna pubblicitaria, tipo Pubblicità Progresso, a favore degli istituti tecnici. Bisogna farla proprio in chiave di salvataggio del futuro del Paese e del futuro dei nostri giovani: serve per moltiplicare i posti di lavoro e mettere in giusto rilievo la dignità e la grandezza del “fare”. Sentire genitori che si vergognano del figlio che fa la scuola tecnica, che io ritengo essere il futuro del Paese, per me è causa di sconforto nei confronti della nostra Italia. La seconda causa è la scarsità di analisi e di attenzione su questo fenomeno. Abbiamo bisogno di ricerche come quella sul futuro dell’istruzione tecnica presentata di recente in ambienti specializzati da Fondazione Rocca e Associazione TreeLLLe, ma anche di una certa “diffusione popolare” di questi temi. Occorre far “risuscitare” il concetto dell’apprendere mettendo in primo piano il progresso tecnologico empirico continuo: elementi che si sono completamente allontanati dal sentire della società italiana.

La terza causa riguarda lo stato dell’istruzione tecnica superiore. Da anni in Italia esiste un problema irrisolto: creare un biennio o un triennio di istruzione tecnica superiore professionalizzante (post-scolastica). Mi ha colpito favorevolmente che in Francia si sia riuscito a mantenere l’equilibrio tra l’impegno di alcune università – che lo promuovono pur lasciando piena autonomia a queste istituzioni post diploma (Institut Universitaire de Technologie) che hanno un forte rapporto con le imprese.

Dalla mia esperienza di professore universitario, debbo confermare che l’università ha fortemente contribuito a soffocare l’autonomia di una possibile istruzione tecnica superiore. È un problema estremamente delicato: escluso qualche caso raro, i professori universitari non hanno rimesso in discussione la rigida tradizione accademica delle università. Quando ero docente universitario seguivo i dibattiti in cui si chiedeva di accorciare di un anno il sistema universitario per permettere ai laureati italiani di competere con i laureati dei Paesi europei dove si fa un anno di università in meno. Invece abbiamo aggiunto un anno di università in più. Abbiamo contraddetto tutti gli obiettivi che il buon senso e le regole europee proponevano. Bisogna ritornare agli obiettivi iniziali e favorire lo sviluppo di titoli professionalizzanti brevi.

La sperimentazione avviata nel 2010 degli Its (Istituti tecnici superiori) serve moltissimo, ma rimane ancora con numeri di iscritti troppo bassi. Moltiplicarli per venti sarebbe un primo obiettivo.

In Germania le Fachochschulen (laboratori e scuole di scienze applicate) sono il luogo dell’upgrading tecnologico, connesso al mondo delle imprese e fuori dalla ricerca pura tradizionale delle università.

Noi dovremmo fare subito 7 o 8 centri di ricerca applicata a servizio delle imprese, centri orientati come le Fachochschulen in Lombardia, in Emilia-Romagna, in Veneto e in altri luoghi del Centro Nord. Costano. Ma sono un’indispensabile rete di rafforzamento di tutta la nostra industria e un aiuto fondamentale per la sperimentazione e lo sviluppo degli Its.

Il filone tecnologico applicato è praticamente inesistente nella nostra istruzione terziaria. Per colmare questa lacuna dobbiamo lavorare molto. Ma soprattutto dobbiamo far capire questo problema al mondo politico, partendo dal fatto che queste scuole, pur operando in contatto con i laboratori di ricerca dell’Università, non ne dipendono nemmeno in un minimo aspetto. Il nostro Parlamento è lontano mille miglia da questi problemi; quando alcuni specialisti ne parlano vengono ritenuti difensori di cose che interessano a pochissime persone. O noi rendiamo chiaro che l’istruzione tecnica applicata è la condizione della sopravvivenza della struttura produttiva italiana o la nostra industria è destinata a scomparire. Se non vediamo nell’alta formazione tecnologica una fonte di approvvigionamento di risorse indispensabili, non ce la faremo. La qualità della stretta correlazione esistente tra ricerca e innovazione, impresa e scuola raggiunta in Germania, è l’obiettivo a cui tendere. Abbiamo in Italia solo una “Fachochschule”, non a caso a Bolzano, vicina anche per lingua alla Germania. Le Fachochschulen sono strumenti che potrebbero essere molto graditi dall’opinione pubblica. Bisogna semplicemente che le regioni si mettano in rete per impostare una strategia comune.

Ci sono quindi ostacoli ben chiari che dobbiamo superare per rianimare tutto il sistema dell’istruzione tecnica e professionale: il distacco dell’opinione pubblica dalla scuola tecnica, l’abbraccio dell’università che deve essere sinergico e non mortale, la disattenzione delle Regioni, il poco interesse del mondo politico.

Pasquale Almirante

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