I cambiamenti che hanno investito la Scuola negli ultimi 30 anni sono avvenuti a caso? O fanno parte di una strategia complessiva? La “Buona Scuola” (Legge 107/2015) non fa forse il paio col Jobs Act (Legge 10 dicembre 2014, n. 183)? A voler esser maligni parrebbe, infatti, che l’una servisse a calare il sipario sulla Scuola come istituzione per trasformarla in azienda; mentre l’altro era finalizzato a cancellare le tutele che proteggevano i salariati dal licenziamento punitivo o ricattatorio
Come la finanza internazionale desidera
I risultati del Jobs Act arrivarono subito sotto gli occhi di tutti: più licenziamenti e meno assunzioni. Malgrado quella che fu la propaganda governativa, i dati parlavano chiaro: le assunzioni, rispetto ai primi otto mesi del 2015, erano subito diminuite nel 2016 (da gennaio ad agosto) dell’8,5%; per contro, i licenziamenti erano immediatamente aumentati del 31%. Un bel successo davvero: per la parte padronale, s’intende. I licenziamenti disciplinari (ora molto più facili) aumentavano del 28%.
Risultati talmente chiari da far sì che il Governo avesse a temere il voto dei giovani al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Difatti i contratti a tempo indeterminato erano diminuiti del 33%: di conseguenza anche un giovanissimo poco perspicace e poco informato, forse, a questo punto avrebbe potuto comprendere la differenza tra la propria condizione lavorativa e quella del proprio padre.
La situazione oggi appare stabilizzata, e l’occupazione sembra in ripresa, ma resta il fatto che 60 anni di conquiste sindacali sono stati cassati per legge.
Però il Governo (come abbiamo già visto) ha fatto quanto JP Morgan chiedeva: ha ridimensionato fortemente le garanzie costituzionali dei diritti dei salariati.
Tentarono pure di cambiare la Costituzione
Altro cavallo di battaglia del simpatico “rottamatore” cresciuto a Rignano sull’Arno: la riforma costituzionale. Già l’8 aprile 2014 (45 giorni soltanto dopo l’inizio del mandato governativo) Renzi presentava il disegno di legge che avrebbe poi portato al referendum del 4 dicembre 2016, e che prevedeva «il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». Se avessero vinto i “Sì“, JP Morgan sarebbe stata accontentata: si sarebbe rafforzato l’esecutivo nei confronti del Parlamento; si sarebbe irrobustita l’autorità centrale nei confronti delle Regioni; si sarebbe portato a 800.000 il numero di firme necessarie per richiedere referendum abrogativi (mentre prima ne bastavano 500.000), rendendo quasi impossibile opporsi alle leggi varate da un Parlamento controllato dal Governo, a fronte di una legge elettorale (legge 6 maggio 2015, n. 52, nota come Italicum) che conferiva la maggioranza parlamentare assoluta al partito vincitore delle elezioni (ancorché eletto da una minoranza di elettori).
Tutti pronti per festeggiare il “Sì”
I problemi del Paese erano ben altri, ma si cercava di far credere agli Italiani che cambiare la Costituzione fosse più importante che dar lavoro ai giovani, tutelare l’ambiente, ricostruire le infrastrutture fatiscenti e tutelare il salario. Con un’abilità propagandistica da far impallidire la fantasia di Orwell, le TV raccontarono agli elettori che tutto sarebbe avvenuto per il loro bene, per farli risparmiare e per consentire ad una classe governativa benefattrice di aver finalmente le mani libere dalla “burocrazia” (leggasi democrazia) per renderli tutti felici, prosperi e facoltosi. Vennero trasmessi in prima serata improbabili dibattiti in cui all’enfant prodige Matteo Renzi si contrapponevano personaggi dell’estrema Destra berlusconiana o leghista, oppure politici del bel tempo andato, onde trasmettere il seguente messaggio: chi vota “No” è fascista, berlusconiano, leghista, rimbambito o conservatore, oppure “invidioso” del successo del nuovo e rampante Partito “Democratico” giovanilistico e renzimorfo. L’ultima parola era sempre per quelli del “Sì”, che guardavano sorridenti le telecamere, rassicuranti come venditori di saponette profumate. Per completare l’opera, i segugi del “Grande Twittatore” (così lo definì Marco Travaglio) impazzavano sul web per controbattere le argomentazioni degli internauti che sostenevano il “No”.
Gli andò male, perché gli Italiani votarono comunque “No”.
Tagliare la Scuola, aiutare le banche
Ma già un altro committente era stato accontentato: le banche. Dal primo gennaio 2016, difatti, il soccorso alle banche in difficoltà deve aver luogo anche con il sostegno dei creditori della banca stessa. Ovvero dei correntisti, i quali, in caso di fallimento della banca, possono vedersi requisiti i risparmi. È il cosiddetto bail-in, “salvataggio interno”. Lo prescrive un decreto legislativo (D.Lgs 180 del 16 novembre 2015), che recepisce la Brrd (Bank Recovery and Resolution Directive), mirante a comporre un «quadro armonizzato a livello europeo» in caso di risanamento delle banche in crisi. Così, tutti contenti i banchieri (non solo italiani). Quando si dice “unire l’utile al dilettevole”. Lo Stato non deve essere “assistenziale”, secondo i neoliberisti italiani; ma qualche eccezione per gli amici si può sempre fare.
Al neoliberismo una Scuola libera (e liberatrice) non serve
Amica del neoliberismo la Scuola, per definizione, non può essere: infatti il termine greco “scholé”, di cui il vocabolo italiano è figlio legittimo, indica il tempo libero dalle logiche del lavoro e dell’economia; il momento in cui ci si può dedicare ad apprendere, a ragionare, a contemplare il bello, il giusto, il vero. Argomenti incompatibili con la visione economicistica, mercatista, socialmente darwiniana del neoliberismo. Sarà per questo che la scure neoliberista si è accanita proprio sulla Scuola (pubblica, giacché quella privata è stata finanziata in barba alla Costituzione)?