Il problema più grande dei ragazzi di oggi è quello non tanto della voglia di leggere, quanto della possibilità di avvicinarsi ai testi complessi e linguisticamente per loro quasi incomprensibili.
E non parliamo solo dei poeti, ma addirittura dei prosatori. Per loro Boccaccio è quasi illeggibile, Machiavelli non ne parliamo, su Manzoni stentano parecchio, Pirandello li disorienta altrettanto. Dunque sono gli insegnanti a dover tradurre in un linguaggio più attuale, a chiosare continuamente, lambiccandosi la mente su come rendere piacevole un testo oltre che nel contenuto nella forma. Tempo fa Nicolò Mineo, già ordinario di letteratura italiana, per ovviare a questo spinoso problema, propose una vera e propria traduzione dei classici in un italiano moderno.
A tal proposito abbiamo rivolto alcune domande a Romano Luperini, uno dei massimi esponenti della critica letteraria italiana, docente e scrittore nonché coautore del libro di testo La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea, oggi in uso in circa un quarto delle classi di letteratura dei licei.
Prof. Luperini, come fare leggere ai ragazzi, a fronte di una sempre minore competenza di decodificazione, i cosiddetti classici?
I classici vanno sempre tradotti nella lingua d’oggi, a volte attraverso la parafrasi letterale, a volte attraverso una operazione solo culturale e non linguistica.
Cosa ha fatto De Sanctis se non tradurre nella prospettiva romanticorisorgimentale dell’Ottocento la precedente letteratura italiana? Oggi l’aspetto linguistico ha indubbiamente maggiore rilevanza, e dunque ben vengano anche le parafrasi della lettera del testo.
Qualche anno fa Santagata fece una edizione delle Canzoni leopardiane nella lingua d’oggi sollevando obiezioni da parte delle vestali della ortodossia. Nessun scandalo, invece. Semmai il problema è questo: la parafrasi non deve annullare o far dimenticare il testo, ma rimandare di continuo a esso. Non deve sostituirlo. Occorre il confronto fra ieri e oggi, fra la lingua di ieri e quella di oggi, fra la cultura del passato e quella del presente.
L’insegnante deve tradurre, trasporre, trapiantare; deve mettere in rapporto, far dialogare mondi diversi; deve fare il mediatore culturale. Se si annulla uno dei termini, si rischia di perdere tutto. Certo, meglio la traduzione che niente. E in certi casi magari sarà necessario questo sacrificio. Ma l’ideale è che la traduzione, sempre necessaria, faccia sentire il bisogno del testo di partenza, costringa a un confronto ravvicinato e puntuale con esso.
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Vogliamo fare una provocazione, tra il serio e il faceto: ma non è che la figura del docente, in questa vertiginosa evoluzione dominata dalle nuove tecnologie, è diventata pressochè inutile?
Non credo l’ipotesi abbia fondamenti seri, cioè antropologici. Mi rendo conto che la funzione docente è in questi nostri tempi fortemente indebolita, ma non è sostituibile da internet o da altre forme neutrali di trasmissione. Insegnare vuole dire non solo comunicare nozioni, ma anche trasmettere emozioni, esperienze, passioni, comporta investimenti sulle persone, processi psicologici complessi.
La trasmissione del sapere fa parte di un Dna antropologico che è difficile cambiare e che si modifica molto lentamente, non nei secoli ma nei millenni. Io ricordo perfettamente la voce e il volto di alcuni miei insegnanti alle medie e al liceo, e molto di quello che ho imparato allora mi risuona ancora dentro attraverso la loro voce, il loro tono, il loro modo di vivere la materia. Se si toglie questo aspetto, si toglie all’insegnamento quasi tutto. Le note e la parafrasi danno informazioni necessarie alla interpretazione del testo; ma non sono sufficienti.
L’interpretazione, infatti, non si risolve nel commento, cioè nella informazioni e nella parafrasi, E’ qualcosa di più: non è solo commento al testo, perché implica cultura, calore, una determinata visione del mondo, una passione del vivere e del pensare. Per interpretare il testo bisogna interpretare il mondo che quel testo lontano rappresenta e nello stesso tempo il mondo di oggi che riceve quel testo. L’interpretazione esige cioè una mediazione culturale che né internet né altri mezzi di informazione, pur utili, possono in alcun modo fornire.
In finale, una breve considerazione: coscienti che i ragazzi non sanno più leggere compiutamente i testi letterari, li abbiamo ampiamente facilitati con chiose e spiegazioni di ogni genere; contemporaneamente ciò non fa altro che atrofizzare la loro capacità di penetrare il testo, annullando lo sforzo di comprensione.
Se c’è tutto in nota, perché impegnarsi più di tanto? E’ questo il semplice ragionamento di una generazione che fa della pigrizia fisica e mentale un suo status vivendi…
Per giunta abbiamo anche rischiato di annullare la funzione stessa dell’insegnante, che prima era un punto di riferimento fondamentale per l’acquisizione del sapere, mentre oggi risulta ormai, almeno agli occhi degli alunni, un “doppione” del libro… dove ormai c’è tutto.
E un inutile doppione del mondo di Internet, dove basta digitare una parola affinchè magicamente balzino fuori le più svariate ed esaustive notizie sull’argomento.
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