I lettori ci scrivono

Perché non ridurre il numero massimo di alunni per classe da 30 a 25?

Sabato mattina di fine gennaio. Terzo open day del Liceo scientifico scienze applicate Cartesio di Roma, dove insegno matematica e fisica. È la sede distaccata dell’Istituto di istruzione superiore Evangelista Torricelli. I genitori accompagnano ragazzi e ragazze di terza media a visitare quella che potrebbe essere la scuola superiore prescelta. I laboratori sono allestiti come sempre, quello di fisica, di biologia, di chimica, di arte, di informatica: in ognuna delle aule dedicate, gli attuali studenti delle varie classi si sono offerti di spiegare e dimostrare quello che fanno quasi quotidianamente. L’atmosfera è accogliente, la speranza di riuscire ad arrivare al numero di iscrizioni necessario per avere tre prime è ogni giorno più realistica, più concreta.

Eppure… Eppure il dubbio si insinua tra le parole della dirigente: se non si arriva al minimo di venticinque studenti per classe, la terza prima non si farà. E questo indipendentemente dalla presenza e dal numero di iscritti BES, ovvero alunni dai Bisogni Educativi Speciali, legati sia all’apprendimento, sia a disabilità psichiche e/o fisiche, sia a svantaggi sociali. I numeri diventano una discriminante inesorabile, l’opposto del messaggio di inclusione che questa scuola vuole dare. Quando le iscrizioni non sono un multiplo di venticinque, salta una classe e ci si ritrova con prime da 30 alunni, con o senza alunni BES. I pochi che restano fuori vengono reindirizzati verso il liceo scientifico tradizionale o verso altre scuole. Come l’anno scorso. Quando gli iscritti erano 35 e si impose un’unica prima di trenta alunni. Per gli esclusi e le loro famiglie un vero dramma. Per chi ha ragazzi con certificazioni che danno diritto all’insegnante di sostegno, per esempio, e che hanno scelto questa scuola proprio per l’indirizzo Scienze Applicate, essere mandati altrove è un problema grave.

Ogni giorno guardiamo il bollettino dei numeri.

Ogni giorno, da neo assunta in questa scuola, come docente di matematica e fisica, ho una o due ore nell’unica prima liceo di questa sede, e mi confronto con una classe di ventinove studenti. Di questi, cinque hanno certificazioni per le quali c’è bisogno di attenzioni particolari, sia dal punto di vista della didattica, che del rapporto umano. Che poi, al di là di questi certificati, ogni adolescente che affronta il primo anno di scuola superiore, ha bisogni speciali, soprattutto nell’era post pandemia. Riuscire a individuarli e trovare strade per facilitare l’apprendimento, è una missione che si complica esponenzialmente quando i numeri salgono.

In questa classe ho sette ore a settimana, tra matematica e fisica, più un’ora di potenziamento, facoltativa. In quella magica ultima ora, sperimento la lezione con la classe ridotta. Io sono la stessa e loro le stesse persone. Eppure… Ci si guarda meglio negli occhi, c’è una partecipazione vera, di tutti, sia nel silenzio che si respira, sia nello scambio di domande, risposte, ruoli. Capita che in quest’ultima ora mi metta tra i banchi e lasci che una o uno di loro vada alla lavagna, come docente. E tutto fila liscio. Si segue un filo che ognuno riesce ad avere in mano. Siamo meno della metà, una classe che è persino troppo ridotta. Ma basterebbe anche essere una ventina, per aspirare a trovare un equilibrio.

Quando provo a fare la stessa cosa con la classe al completo, il filo si spezza. Continuamente. E non è per via di chi c’è o non c’è. È proprio una questione di numeri. ‘Tenere’ una classe di venti persone, come si dice costantemente di noi docenti, ‘che sappiamo o non sappiamo tenere la classe’, è un obiettivo possibile. ‘Tenerne’ una di trenta persone diventa un’utopia, una chimera, un sogno che ci toglie il sonno la notte. Perché purtroppo, o per fortuna, alcuni di noi si portano a casa i volti dei propri studenti, i loro bisogni, le loro domande:

“Perché dovremmo stare attenti e seduti sei ore ad ascoltare cose che non ci interessano? Quando vorremmo ridere, scherzare, socializzare? Va bene come ho svolto questo esercizio? Va bene se uso un foglio senza quadretti, con i quadretti grandi, piccoli, storti? Mi sono dimenticata il libro oggi, mi può giustificare? Ho portato quello di fisica e non di matematica….Io non capisco, non capisco, non ho capito come fare gli esercizi. A cosa servono i vettori? Perché io non riesco a capire qui in classe? A casa poi mi ci metto. Qui mi distraggo.” E così via, ognuno bisognoso di attenzione singola, tutti rivolti all’unico riferimento del quale riconoscere o meno l’autorevolezza.

Sono al mio quarto anno di insegnamento, ma al primo anno di prova, ovvero al primo anno in una scuola dove entro ‘di ruolo’. Questa posizione fa la differenza. Perché il mio ruolo è anche quello di immaginare una scuola dove lavorare meglio, dove il mio contributo sia costruttivo, sia un valore aggiunto. Di fatto è sempre stato questo il mio approccio, ma saltando di anno in anno da un contesto all’altro, si perde il momento di quello che si cerca di mettere in moto.

Sono felice in questa scuola. Ci sono arrivata per caso, ma per scelta voglio rimanerci. È una scuola vera. Situata in una zona di Roma al confine tra diverse aree/quartieri: Primavalle, Ottavia, Trionfale, Pineto, Torrevecchia, Battistini, Montemario, Balduina e oltre. È una scuola ben collegata: ci si arriva con la ferrovia che passa per la stazione di Montemario. Dal punto di vista architettonico, non è ricavata in un antico palazzo, dalle aule piccole e fatiscenti, ma è progettata per essere stata un grande polo tecnico, con aule grandi, laboratori per ogni disciplina, campo sportivo all’aperto, la palestra grande e quella piccola fornita di attrezzi speciali.

I laboratori sono vivi, sia perché c’è la volontà è l’impegno di viverli da parte di tutti noi docenti, sia perché ci sono i materiali, gli spazi. C’è un’aula multifunzionale, al centro della scuola, simbolo del principio base di questo plesso, l’accoglienza e l’inclusione a prescindere, di qualsiasi forma di disabilità.

Si potrebbe fare lezione di fisica in laboratorio quasi sempre, compatibilmente con le esigenze di noi docenti. Al biennio sarebbe auspicabile, visto che la fisica è materia ostica arrivando dalle medie. Eppure guidare trenta ragazzi e ragazze del primo anno in laboratorio non è molto pratico ed efficace. Ci si disperde allo stesso modo in cui ci si disperde in classe. Molti si nascondono e spariscono alla vista. Purtroppo succede. Ed è una pura questione di numeri.

Stiamo emergendo dalla crisi pandemica, forse. Ne vediamo gli effetti in ogni ambito dell’evoluzione psichica degli adolescenti. A ridosso delle riaperture, avevamo bisogno di spazi, di aule grandi, per distanziare i ragazzi durante l’emergenza dei contagi. Possibile che rientrati dall’emergenza, ci si dimentichi che le classi ridotte nei numeri possano essere un punto di forza?

Possibile che i concorsi di questi ultimi due anni, che hanno visto immettere nella scuola nuove leve di docenti, non permettano di rivedere i criteri con i quali si formano le classi, abbassando il numero minimo necessario per formare una prima superiore, ma soprattutto riducendo il numero massimo da 30 a 25?

Lancio queste domande come un appello, perché sono sicura che il Cartesio Liceo scientifico Scienze Applicate potrebbe e dovrebbe avere tre classi prime quest’anno. Manteniamo le specificità di ogni sede.

Solo in questo modo l’ambiente che costruiremo, e che continueremo a chiamare scuola, potrà avere una minima chance di andare incontro alle specificità di ogni studente, di ogni adolescente, di ogni individuo, che sia posto al centro, e non ai margini, degli obiettivi del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Marta Cerù

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