La questione attinente la distinzione fra lingue e dialetti non riguarda solamente gli studi linguistici e gli esperti di lingue, ma sfocia in realtà su questioni di carattere principalmente politico. Seppure ci siano stati diversi tentativi di inviduare delle caratteristiche intrinseche alla lingua per permetterci di determinare se ci trovassimo di fronte ad una lingua o ad un dialetto, come ad esempio il grado di differenziazione fra due differenti lingue, la realtà è che il vero discrimine risiede nell’elemento politico e nella percezione soggettiva da parte di una comunità di parlanti.
La famosa citazione di Max Weinreich è una chiara esemplificazione di questo concetto: “Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”. L’elemento distintivo fra lingua e dialetto non andrà, quindi, ricercato nelle caratteristiche intrinseche della lingua, esercizio che potrà comunque interessare il linguista, ma nel contesto storico e politico in cui quella lingua sarà inserita. Così che la divisione di uno stato un tempo unitario in unità politiche differenti vedrà l’elevazione al rango di lingue di precedenti dialetti, come avvenuto con la nascita dello slovacco e del ceco dopo la divisione della Cecoslovacchia, o la presenza di un’unica entità politica renderà dialetti le diverse lingue presenti all’interno del suo territorio, come avviene per la distinzione fra cinese mandarino e cantonese.
Dopo aver esaminato da un punto di vista teorico la questione, adesso vorrei concentrarmi in particolare sul problema del siciliano. Come la mia premessa dovrebbe aver manifestato, vorrei in primo luogo rifuggire le sterili polemiche su lingua e dialetto e, ancor di più, evitare una strumentalizzazione in chiave neoborbonica o anti-italiana della materia. Detto ciò, ritengo che l’insegnamento del siciliano e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale sia un qualcosa da non sottovalutare, ma che potrebbe avere non solo un valore politico, ma anche delle conseguenze positive sulla nostra società e cultura.
Da siciliano, so bene che il siciliano è una lingua viva ma a rischio di estinzione. I nostri nonni e i nostri genitori hanno un’ottima padronanza dello strumento linguistico ma posso testimoniare che la mia generazione, i nati negli anni ‘90, ha una diffusa capacità passiva di comprensione del linguaggio, ma una minore capacità di produzione orale e ancor meno di produzione scritta. Questo renderebbe a me per primo difficile la trasmissione del siciliano alla generazione successiva, nonostante in famiglia il siciliano venga ampiamente utilizzato. L’altro problema è che il siciliano è stato relegato non solo a ruolo di lingua bassa, quindi limitata alla conversazione quotidiana, ma per di più ad essa è stato dato un valore ghettizzante, dove chi comunica in siciliano proviene dagli strati sociali più bassi e dai quartieri popolari (cosa che è comunque comune alle altre regioni italiane).
La domanda che a questo punto un lettore potrebbe in primo luogo porsi è perché sarebbe utile tutelare la lingua siciliana ed evitare che essa scompaia con la generazione dei nostri padri. Dobbiamo tenere presente che ogni lingua rappresenta un particolare modo di osservare la realtà, racconta della storia di un popolo e della sua visione del mondo. In un periodo in cui si fa tanto parlare di diversità non ci si rende conto che la rapida scomparsa della maggior parte delle lingue del mondo (si tratta, infatti, di un fenomeno globale) è una perdita culturale per l’intera umanità. Quante volte vi è capitato di riuscire ad esprimere un concetto solo in una data lingua, o in un dato dialetto, senza essere in grado di renderlo pienamente in un’altra? Perdere questa diversità linguistica limita quindi la nostra capacità di esprimere concetti e ci impedisce di comprendere qualcosa in più dei nostri antenati. È difficile capire il modo in cui i nostri bisnonni interpretavano il mondo che li circondava senza conoscere più le parole che essi utilizzavano per descriverlo.
Oltre all’elemento storico non dobbiamo però dimenticare anche l’elemento sociale. È chiaro che lo studio dell’italiano è fondamentale soprattutto fra le classi sociali che ne dimostrano una scarsa padronanza, cosa che impedirà loro di esprimere pienamente la loro cittadinanza all’interno del nostro stato. Ma il bilinguismo risulta anche essere un vantaggio, anche da un punto di vista cognitivo.[1] La dimestichezza con l’uso e lo studio di due lingue, se adeguatamente valorizzato, renderebbe poi più facile la conoscenza e lo studio di ulteriori lingue. Il plurilinguismo non è d’altronde un fenomeno sconosciuto a diversi stati dentro e fuori dall’Europa.
Il siciliano per ritrovare il suo spazio culturale
Non è da sottovalutare anche il fatto che gli stessi parlanti siciliani, relegati al momento ai margini della società civile, potrebbero ritrovare una legittimazione e un’identità nella valorizzazione del proprio patrimonio culturale. In questo modo il siciliano non verrà più relegato solo alle espressioni gergali ma potrà ritrovare un suo spazio in espressioni culturali e letterarie dalle quali è da tempo escluso. Lo stesso è avvenuto in Spagna con il galiziano e il catalano e, seppure non sia auspicabile un medesimo utilizzo politico a fini indipendentistici, data anche la diversa storia, è interessante la valorizzazione che si è avuta di queste lingue, per le quali si moltiplicano i prodotti culturali.
Affinché il siciliano non scompaia è necessario, però, non solo un generico insegnamento dello stesso nelle scuole elementari, di cui non è tuttora chiara la realizzazione. Per prima cosa dovrebbe stabilirsi un insieme di regole condivise, soprattutto per quanto riguarda l’ortografia, di modo che al di là delle diverse varianti, presenti in qualsiasi idioma, si possa trovare una standardizzazione che permetta una produzione letteraria, poetica e genericamente culturale in questa lingua. Solo quando la cultura è viva una lingua può ritenersi realmente viva.
Manlio Distefano
[1] Non mi soffermo su questo, per approfondimenti cfr. Diamon, Jared, Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, Torino, 2012, pp. 389-398.
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