La Corte di Cassazione si è recentemente occupata di permessi di cui alla legge 104/92 per l’assistenza di un familiare disabile grave.
In particolare, la Sezione Lavoro civile, con sentenza n. 21416 del 14 agosto 2019, ha affrontato il caso di un dipendente di una ASL che aveva impugnato il licenziamento per giusta causa comminatogli per avere dichiarato che la madre, per la quale beneficiava dei permessi ai sensi della L. n. 104 del 1992, articolo 33, comma 3, non fosse ricoverata stabilmente presso alcuna struttura.
La ASL, a seguito di controlli, aveva invece appurato che già da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera. Questo fatto però, per la Cassazione, non poteva rappresentare motivazione sufficiente a legittimare il licenziamento. Vediamo il perché.
La ratio legis dei permessi in questione consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare, rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all’assistenza da parte del disabile solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare. Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l’intervento, a detti fini, dei familiari.
La legge dice espressamente che i permessi sono concedibili solo se la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno). Tale condizione, secondo la Suprema Corte, non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa.
Solo se la struttura ospitante sia in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo e così di assicurare al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo status si rende superfluo, o comunque non indispensabile, l’intervento del familiare, venendo così meno l’esigenza di assistenza posta a base dei permessi.
Se, invece, la struttura non sia in grado di assicurare prestazioni sanitarie che possono essere rese esclusivamente al di fuori di essa, si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell’istituto dei permessi, che è quella di consentire l’assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia.
La conclusione alla quale è giunta la Cassazione è pertanto la seguente: il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perché queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa, mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
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