Pare ormai invalsa, fra i dirigenti scolastici, la cosiddetta “valutazione reputazionale” degli insegnanti, basata sui giudizi e sulle opinioni che il dirigente ha (o crede o pensa o sostiene di avere) recepito da alunni, colleghi, famiglie.
Il criterio non può che apparire vago, ambiguo e insidioso. Non è detto che la vox populi sia sempre e comunque vox Dei. Andrebbe semmai attentamente contemplata la botticelliana (ma già classica) Allegoria della Calunnia. La Nuda Veritas ben poco può contro la nera, feroce triade di Insidia, Calunnia e Frode. Il purissimo azzurro della verità – e, per usare un termine ormai caro anche alla burocrazia, della “trasparenza” – resta uno sfondo lontano e irraggiungibile.
Si sa che, purtroppo (e spiace doverlo dire), l’ambiente della scuola, al pari del resto di tutti gli altri ambienti, professionali o culturali, non è certo immune dal vento velenoso dell’invidia, della maldicenza, dell’astio personale, della semplice, gratuita malignità, della menzogna fine a se stessa, spesso figlia di nient’altro che della stupidità – tutte macchie che possono inquinare, e rendere tutt’altro che oggettiva, una valutazione basata su opinioni correnti carpite non si sa in che modo, e sulla base di quali fonti, e che alcuni dirigenti potrebbero interpretare, a loro volta, in modo arbitrario, condizionati da pregiudizi, o da simpatie e antipatie personali.
Né la svogliatezza, l’indisciplina o l’ostilità degli studenti andranno sempre e solo imputate all’insegnante.
Sembra, peraltro, che la normativa vigente sia sparita, o venga eclissata.
Secondo il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, art. 448, comma 3 (comma che, per quanto ne so, non è mai stato abrogato da disposizioni successive), la valutazione degli insegnanti è fra l’altro «motivata tenendo conto delle qualità intellettuali, della preparazione culturale e professionale, anche con riferimento a eventuali pubblicazioni».
Com’è ovvio, le pubblicazioni non sono tutto. Ci sono ottimi ricercatori incapaci di insegnare, e non tutte le pubblicazioni, per il solo fatto di aver visto la luce, sono degne di nota, o rappresentano un motivo di merito per i loro autori e di arricchimento per i loro lettori. Ci sono, certo, persone coltissime che non hanno mai pubblicato una riga, e, dall’altra parte, implacabili imbrattacarte del tutto privi di gusto e di cultura.
Ma le pubblicazioni, e in generale i titoli e la preparazione culturale, sono pur sempre qualcosa di tangibile, di realmente verificabile, e di cui la scuola stessa dovrebbe sostenere, difendere e trasmettere il valore; un “possesso perenne”, avrebbe detto un Antico, da contrapporre, precisamente, alla liquidità strisciante e insidiosa del chiacchiericcio più o meno malevolo.
E forse anche su di essi, oltre e più che su vaghe e indeterminate voci di corridoio còlte e liberamente interpretate da un dirigente, dovrebbero basarsi (non interamente, ma almeno in parte) valutazione e carriera di un insegnante.
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