Antonino Petrolino, “chairman del forum” dell’”Associazione TreeLLLe”, è personalità molto influente nel mondo della Scuola.
Per trent’anni Dirigente Scolastico, storico leader dell’ANP fin dall’inizio della sua storia, presidente della “ESHA Italy” (sezione italiana della “European School Heads Association”, Associazione Europea dei capi di istituto) è un sostenitore convinto della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi, e la sua opinione esercita da sempre una notevole influenza sulle scelte parlamentari e governative riguardanti la politica scolastica.
A margine del Convegno “Promuoviamo la scuola: innovazione didattica, un ponte verso il futuro” — tenutosi Roma il 25 ottobre scorso nei locali di Palazzo Montecitorio per iniziativa di Lucia Azzolina, Sottosegretario del MIUR — La Tecnica della Scuola lo ha intervistato:
Professor Petrolino, nella sua relazione al Convegno lei giustamente stigmatizzava l’impiegatizzazione dei docenti come fattore di ritardo della scuola italiana. Come contrastare questa impiegatizzazione?
Qualificandoli, evidentemente: dando loro da una parte una preparazione più solida e più adeguata alle sfide che devono affrontare quotidianamente; dall’altra risvegliando la consapevolezza di essere dei professionisti. Per ottenere ciò occorre conferir loro quella preparazione seria che finora non c’è stata causa di lauree generiche e generaliste, non concepite per fare l’insegnante. Se io sono un professionista, studio per esercitare la mia professione; e, una volta raggiunto l’obiettivo, devo essere in grado di offrire qualcosa che non si trova sul mercato. Se io ho una laurea con lode in matematica, tuttavia non per questo sono, automaticamente, un buon insegnante; non sono portatore di qualcosa di specifico. Quindi una preparazione dedicata al mestiere di insegnante è una delle premesse della possibilità di riappropriarsi del ruolo e quindi anche dell’orgoglio di categoria (non voglio dire di casta!), naturalmente con un riconoscimento economico consistente, soprattutto per quanti fanno di più e meglio. Ciò porta con sé ovviamente un discorso sempre evitato perché considerato tabù (ma che non si può continuare ad evitare): quello della valutazione. Se bisogna stimolare l’insegnante a fare di più e meglio, a riappropriarsi della propria professione e a ritrovare l’orgoglio di essere un professionista, bisogna anche distinguere fra chi veramente fa di più e meglio e chi non lo fa. Su un milione di persone non tutti lo fanno: la maggior parte degli insegnanti è all’altezza del proprio ruolo, ma purtroppo un numero non trascurabile non lo è. Questo numero non trascurabile, come sempre, rappresenta la mela marcia che guasta tutto il cesto delle mele buone. Quindi occorre un insieme di politiche e di prassi. Non basta una singola ricetta; ma sicuramente le singole componenti del miglioramento sono la valutazione, la formazione iniziale e il trattamento economico. L’altro elemento, di cui parlavo prima, è il dedicare una parte importante del proprio orario di lavoro a preparare il lavoro stesso, attraverso la collaborazione con gli altri, lo studio, la conoscenza della situazione individuale dello studente mediante azioni di tutoraggio, di “coaching”, ed attraverso tutta una serie di attività che facciano vedere lo studente non come un pappagallo ammaestrato che dia le risposte giuste, ma come una persona con i suoi bisogni e le sue curiosità che si possono incoraggiare, indirizzare, assecondare, eccetera.
Riconoscendo tutto ciò anche economicamente, quindi?
Sicuro. È appunto una delle componenti di cui le parlavo.
Dal punto di vista giuridico, perciò, lei sarebbe per l’uscita della Scuola dal Pubblico Impiego (visto che i docenti delle scuole, grazie al D.Lgs 29/1993, sono equiparati ad impiegati)?
Teoricamente gli insegnanti sono già fuori dal Pubblico Impiego, perché hanno un contratto fittiziamente di diritto privato.
Ma tutto il Pubblico Impiego ha un contratto di tipo privato, appunto in seguito al D.Lgs 29/1993…
Di fatto però le logiche sono rimaste le stesse. Quindi non è tanto un problema di uscita dal pubblico impiego, ma un problema di uscita dalla logica impiegatizia.
Quindi rimanere nel Pubblico Impiego, ma con una logica di tipo diverso da quella impiegatizia?
Esatto: la logica deve essere diversa. Sicuramente dev’esserci più spazio per il merito. E quindi per la valutazione. E quindi per la retribuzione, perché sono tutti aspetti collegati. Non si può agire solo su una delle leve lasciando da parte le altre.
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