Sui crinali tra la morte e la vita, tra la malattia e la guarigione, tra chi unge infezioni e chi ne è vittima, la letteratura ha dato da sempre il suo contributo, e non solo coi grandi romanzi dell’Ottocento, ma anche nei racconti, con pennellate he ancora riescono a restituire affreschi formidabili.
Fra i tanti, ricordiamo la novella “La mosca” di Luigi Pirandello, nella quale Gerlando Zarù assume le vesti del terrorista-untore.
Una mosca, pregna di carbonchio, lo ha punto e lo sta portando alla morte, ma lui nulla fa allorché capisce che un similare insetto, che si è già posato sulla pustola di una bestia, sta infilando la sua proboscide nella ferita del cugino e amico Neli Tortrici che è venuto a soccorrerlo. L’invidia e il risentimento, per quella vita che continua, rispetto alla sua che inesorabilmente rischia di spegnersi, impediscono a Gerlando un solo gesto o di sussurrare una sola parola per scacciare l’insetto senza inoculare il mortale germe all’amico.
Neli ha la sola colpa invece di essere sano, mentre Gerlando la sventura di una condanna a morte; da qui una sorta di vendetta subdola contro il generoso cugino che ha fra l’altro chiamato il medico. Scatta allora il contrappasso del sottile artista: Pirandello trova una uscita geniale al suo racconto. Appena il medico capisce che Neli rischia la vita per colpa del cugino, che non lo ha avvertito del pericolo, lascia Gerlando al suo destino di morte nella stalla e porta via il giovane, appena infetto, per salvarlo.
Dall’Italia alla Francia il passo è breve. Qui la letteratura si crogiola sulla tisi che alla fine dell’Ottocento uccide oltre 15.000 persone nella sola Parigi. Tuttavia la tubercolosi è anche segno di un eccesso di emotività e di sensualità, tanto che con il Romanticismo è diventata quasi una malattia “alla moda”, il “mal sottile” quello che ha portato, per esempio, a morte Chopin e Alfred de Musset, ma pure la “Traviata”, quella “Signora delle camelie” che tanti pianti ha strappato nei teatri lirici e no.
Tuttavia, se morire di tubercolosi è considerata una bella morte, quella causata dalla sifilide è ritenuta vergognosa, perché è un male disgustoso legato per lo più ad amori mercenari e sordidi.
“Mal francese” per gli italiani e “Mal napoletano” per i francesi, la sifilide fa della meretrice una sorta di fognatura che si espande e infetta le città attraverso il libertinaggio e la corruzione dei costumi.
A parte le ossessioni, come anche l’odore di malattia e di morte per vaiolo-lue, presenti nel romanzo “Nana” di Emile Zola, che fa morire Anne Coupeau abbandonata da tutti in una stanza d’albergo, in concomitanza con l’annuncio della dichiarazione di guerra alla Prussia, un personaggio singolare, e prototipo dell’untore, più del pirandelliano Gerlando Zarù, visto il periodo storico, è “Il letto 29” di Guy de Maupassant che fra l’altro muore proprio di lue.
Anche in questo racconto, siamo durante la guerra franco-prussiana, nel corso della quale il capitano Epivent, per avere ucciso un nemico, viene decorato con la Croce. Contestualmente la sua fidanzata, Irma, ha contratto la sifilide per colpa di un prussiano che l’ha violentata. Ma lei, patriota, piuttosto che curarsi, decide di concedersi ai commilitoni del suo stupratore, impestando così mezzo esercito nemico.
Accusata dal fidanzato, con la decorazione al petto, di averlo disonorato, la donna, morente, ha la forza di mettersi a sedere sul letto e di urlargli che è lei a meritarsi l’appellativo di eroina. Mentre lui ha ammazzato un solo nemico, ma gli rimane tutta la vita da vivere, lei invece ne ha ammazzati molti di più, se pur a colpi di vagina e non di spada: “Più di te ne ho ammazzati, più di te, più di te…”
Dalla Francia in America e cadiamo tra le braccia di Edgar Allan Poe che ci porta nella regale residenza del principe Prospero, richiamando per certi versi l’esperienza dei giovani della brigata di Boccaccio, che lasciano Firenze per sfuggire alla peste. Anche il personaggio della fantasia di Poe, il principe Prospero, per sfuggire al contagio della Morte Rossa si ritira con un migliaio di amici nella sua enorme residenza dove, fra danze e godurie, la vita passa piacevolmente, fino a quando, nel corso di un ballo in maschera, entra, attraversando le sette sale allestite per l’evento, una bizzarra figura vestita con un sudario macchiato di sangue e la maschera di un cadavere che esegue una lugubre pantomima. Indispettito per quel sinistro, orribile apparente scherzo, il principe tenta di svelarne il volto, ma prima di raggiungerla muore ai suoi piedi. Sono gli amici allora a tentare di smascherarla, ma quando ci riescono, non solo dietro il sudario non c’è nessuno, ma uno alla volta muoiono tutti, colpiti dal ferale morbo che ha già devastato tutta la contrada.
Se al destino, o al fato o alla sorte, è difficile sfuggire, è tuttavia singolare prendere atto che la letteratura e l’arte riescono spesso a svelare misteri così reconditi e intricati della vita degli umani, davanti ai quali, se la ragione sembra balbettare, la fantasia trova appigli d’acciaio.
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