Il Vicepresidente Confindustria scrive sul Sole 24 Ore una riflessione sulla istruzione italiana, a seguito soprattutto del dibattito sia sulla riduzione di un anno dei Licei e sia sull’innalzamento dell’obbligo a 18 anni.
“Servono nuovi saperi e maggiori competenze in ambiti scientifici. In Italia occorre disseminare questi saperi sin dai primi gradi della scuola per dare, ad un numero crescente di studenti, la possibilità di affrontare quei percorsi scolastici e universitari di natura tecnico-scientifica che offrono maggiori opportunità di occupazione. Del resto non è un caso che i test di ingresso delle migliori scuole, italiane e straniere, siano proprio basati sulla valutazione della capacità logiche e di ragionamento. Dobbiamo, rapidamente, portare la scuola italiana su questa strada, investendo sul merito degli insegnanti e mettendo finalmente gli studenti al centro delle nostre attenzioni”.
“Occorre evitare alle future generazioni e alla nostra società- scrive il vicepresidente di confindustria- le conseguenze di un drammatico mismatch fra ciò che si sa, o si è in grado di imparare e ciò che serve sapere o saper fare”.
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“La questione, dunque, non riguarda certo il “quanto” si sta a scuola, ma, piuttosto, il “cosa” vi si impara. Se il “cosa” non diventa utile ad affrontare il futuro, stare in classe fino a 18 anni non servirà a granché. In questa ottica, non risolve, ma certo aiuta, costruire una relazione virtuosa ed equilibrata fra scuola e mondo del lavoro.
La seconda questione riguarda la riduzione da 5 a 4 anni della durata della scuola superiore. L’idea non è di oggi. Ora, meritoriamente, la Ministra Fedeli ci riprova e mostrando coraggio allarga la sperimentazione a un numero più significativo di scuole. Sulla proposta sono state già sollevate le solite obiezioni: si svilisce il bagaglio culturale degli studenti; si mette troppa enfasi sull’inserimento lavorativo. Sono argomenti sensati che vanno tenuti in conto ma che non possono impedire la sperimentazione”.
“In ultimo, la questione più delicata e complessa che riguarda l’elevazione del cosiddetto “obbligo scolastico”. La discussione sul punto va affrontata senza pregiudizi guardando in faccia la realtà. Oggi, il 98% dei licenziati della scuola media prosegue nelle superiori e, ben oltre l’80% arriva al diploma di obbligo scolastico.
Negli anni 60, a malapena, il 30% degli studenti arrivava a terminare la scuola media. Nonostante ciò abbiamo un livello di disoccupazione giovanile sopra il 30%, fra i più elevati in Europa e sono oltre 2 milioni i cosiddetti Neet, giovani che non studiano e non lavorano. L’età media di ingresso nel mondo del lavoro nei paesi più avanzati è attorno ai 22-23 anni mentre da noi supera i 28. In questo quadro discutere della mera elevazione dell’obbligo scolastico, certo, non aiuta. Sarebbe, invece, più utile ragionare sul fatto che la scuola italiana, in molte aree del Paese, continua a non avere quel livello di qualità che permette agli studenti, alla fine dei loro percorsi di studio, di pareggiare le differenze sociali, valorizzando il merito”.
“Non si risolve un problema di questa portata limitandosi a tenere in classe i ragazzi fino a 18 anni. Serve, come del resto suggerisce anche la ministra Fedeli, un lavoro paziente che metta ordine nell’offerta formativa; eviti sovrapposizioni e conflitti, come quello fra lauree professionalizzanti e formazione tecnica superiore (ITS); elevi finalmente la qualità media del nostro sistema educativo che va considerato nelle sue due fondamentali componenti: scuola e formazione professionale. Su questi temi Confindustria pone da sempre grande attenzione. Sono questioni complesse ma vanno affrontate con rapidità, determinazione e, soprattutto, grande senso pratico se davvero si vuole dare effettività ai diritti”.