Il reclutamento degli insegnanti sta procedendo a ritmo serrato, un concorso dietro l’altro per andare a coprire i posti vacanti (che in alcune regioni abbondano) e alleggerire le graduatorie degli aspiranti. Non è neppure terminato il primo concorso docenti 2024, quello le cui prove scritte si svolsero lo scorso marzo, che all’orizzonte c’è n’è già un altro: è quello che chiuderà la fase transitoria della riforma sul reclutamento prevista dalla L. 79/22.
E non sarà l’ultimo, perché l’Italia, sottoscrivendo il P.N.R.R, si è presa tutta una serie di oneri e onori che, adesso, vanno rispettati. Entro il 2026 ci saranno 70 mila nuove immissioni in ruolo (e la notizia è ottima), che saranno così ripartite: 20 mila entro la fine di quest’anno, 20 mila entro il 2025 e 30 mila entro il 2026. Eppure, nonostante le parecchie opportunità, ci sono lamentele per le troppe procedure.
Chi è attempato, e lavora nella scuola da molto, ricorda gli anni bui, quando venivano bandite procedure a zero posti, o il decennio bianco degli anni ’90, che non vide l’ombra di un concorso a cattedra. Allora non c’era altra scelta che armarsi di santa pazienza e aspettare. Un’intera generazione aspettò nove anni per poi abilitarsi con il concorso del 1999.
E’ vero che l’Europa detta le sue regole ma, in questo caso, ha tutte le ragioni. Il sistema di reclutamento in Italia sicuramente va rivisto e migliorato, ma non può tornare ai modelli del passato. E’ all’Europa che dobbiamo guardare. Germania, Austria, i paesi del nord hanno sistemi di reclutamento diversi tra loro e diversi dal nostro, ma un aspetto li accomuna: sono tutti sistemi veloci che immettono sempre nuova linfa nella scuola. Più concorsi significa più opportunità per tutti, per i precari e per i giovani che cercano di fare le prime esperienze.
Ivana Londero
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