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Poca storia recente a scuola? Lo storico Greppi: “Non conta tanto cosa si studia ma come e la passione di chi la insegna”

Il dibattito sull’insegnamento della storia scuola è, in questi giorni, particolarmente infiammato, soprattutto dopo l’intervento, su La Stampa, dello storico Gianni Oliva di qualche giorno fa. Oggi, 4 agosto, nelle pagine dello stesso quotidiano ha parlato dell’argomento un altro storico, Carlo Greppi.

Quest’ultimo ha cercato di spiegare perché è importante studiare la storia a scuola: “Non intendo dire alla comunità dei docenti di storia cosa dovrebbe approfondire e in che tempi. La storia è una disciplina che si insegna in primis perché chi la studia impari a pensare storicamente, a sapersi collocare – come essere umano nel tempo – in un flusso di processi ed eventi locali e globali che porta fin qui. È una disciplina che ci insegna a comprendere non tanto le tanto evocate radici – metafora assai insidiosa – , quanto noi stessi”, ha esordito.

La responsabilità degli adulti

Secondo lui la storia recente non è politica e va studiata: “Le indicazioni ministeriali non escludono affatto l’ultimo mezzo secolo dai cosiddetti programmi, semmai una consolidata consuetudine vuole che sovente si arrivi all’ultimo anno in ritardo, sprofondati nell’Ottocento, e con l’avvicinarsi dell’esame di Stato l’obiettivo di dedicare integralmente l’ultimo anno al Novecento e al post-Novecento si rivela una chimera. Poi c’è la questione, sollevata anche da Oliva, degli ultimi decenni percepiti come politica e non storia. Chiedete però a una qualunque scolaresca se l’11 settembre 2001 è storia o cronaca, e scoprirete che non hanno esitazioni: è storia. Il mondo adulto ha la responsabilità di saper riempire con una narrazione documentata e verificabile – seppur provvisoria –, e con il necessario slancio civile, gli anni che altrimenti uno studente potrebbe non avere mai occasione di approfondire”.

Ecco cosa conta secondo lo storico: “C’è un’abitudine malsana ad abbandonare al caso la percezione della storia più recente che va superata. Il combinato disposto tra ‘fattore tempo’ e timore delle polemiche politiche, cui si aggiunge la poca ‘utilità’ della storia in vista dell’esame, fa sì che convenga ‘mollarla’ tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del Novecento, e non di rado accade. I modi per risolvere questa anomalia del sistema possono essere tanti: c’è persino chi già procede a ritroso, risalendo la corrente della storia. È tuttavia ben chiaro a molte e molti docenti: non è tanto il cosa si affronta quanto il come lo si fa”.

“Invece è necessario mostrare come ‘fare storia’ significhi da un lato narrare storie, e dall’altro ragionare sulla loro fondatezza, e sulle tracce che ci consentono di raccontarle. La storia è documentazione, racconto e interpretazione, e questo non può non entusiasmare: il fatto che si tratti di un magma la cui narrazione non è sedimentata dev’essere uno stimolo, non un ostacolo; un cantiere metodologico aperto. La passione di chi la storia la insegna è contagiosa, ed è la scintilla che farà divampare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini di domani”, ha concluso Carlo Greppi.

La petizione

Nel frattempo su Twitter gira da giorni una petizione, fatta partire dal blog Frammenti di Storia, che al momento ha raggiunto 26mila firme, così denominata: “A scuola vogliamo imparare anche gli ultimi 70 anni di Storia!”.

Ecco le motivazioni alla base della raccolta firme: “Ci rivolgiamo al ministero dell’Istruzione e del Merito, affinché si possa discutere seriamente di una necessaria riforma dei programmi didattici della scuola secondaria di secondo grado. Chiediamo che vengano inclusi con maggiore attenzione lo studio degli anni ‘50, ‘60, ‘70, ‘80 e ‘90, fino ad arrivare alle soglie del XXI secolo. Non in maniera superficiale e approssimativa come viene fatto ancora adesso, ma con metodo e serietà. E’ giunto il momento di agire e di provare ad aggiornare le cose. Riteniamo che non sia più sufficiente indignarsi di fronte alle statistiche, urge una presa di responsabilità da parte delle istituzioni preposte. Ne va della consapevolezza del dibattito pubblico, perché una società con una scarsa conoscenza del proprio passato prossimo, è condannata ad avere anche una scarsa capacità di interpretazione del presente. L’obiettivo finale è raggiungere le 100mila firme”.

Redazione

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