Nel Rav da inserire in questi giorni c’è un dato che, quando l’ho presentato in collegio, ha stupito un po’ tutti.
Quanti giovani abbiamo, sotto i 30 anni, come docenti?
Solo uno.
Solo uno su 300 circa delle mie due scuole superiori.
Mi immagino giovane in mezzo a tanti giovani, tanti anni fa.
Allora il ricambio era veloce, anche perché andavano in pensione ancora giovani.
Magagne ed errori del passato.
Ora, invece, i nostri giovani in gamba, al sud come al nord, vedono oramai come prima opzione quella di andare all’estero.
E, a parte casi rari, alla domanda ai giovani tirocinanti se per loro l’insegnamento è una prima scelta, la risposta purtroppo delude.
Per cui i pochi giovani che ritroviamo non sono poi i più motivati, e nemmeno, forse, quelli più in gamba. Ma non vorrei fare di tutta un’erba un fascio.
Magari in un secondo momento quei giovani potranno scegliere o sceglieranno di tornare in Italia e scegliere l’insegnamento.
Perché resta comunque, per chi ha talento e passione, un bellissimo lavoro, anche se poco riconosciuto a livello politico e, a volte, anche sociale.
Allora mi immagino ancora giovane genitore.
Qual è la scuola che mi piacerebbe, che mi piacerebbe pensare per i nostri figli?
La risposta sembra facile.
È quella che coinvolge, che trasmette il sapore del sapere, il gusto della ricerca, la capacità di domandare, prima del semplice rispondere ai quesiti, ai test, ai compiti, alle interrogazioni. Insomma, la scuola che fa brillare gli occhi. Che non si limita a insegnare le singole materie o nozioni, ma che, “attraverso” le materie e le nozioni, allena al pensare, al riflettere, al prendersi cura.
Ce ne sono ancora docenti che rispondono a queste qualità?
Si, ce ne sono.
Tanti sono infatti i docenti che, nelle nostre scuole, rappresentano per i nostri bambini e ragazzi queste figure di adulti significativi. Veri “maestri”.
Tanti, ma non tutti.
Non ci sono contratti di lavoro che tengano, di fronte a questi “maestri”, come non ci sono contratti in grado di limitare la presenza a scuola di docenti non sempre preparati, o stanchi educativamente.
I contratti, perché format generali, in questi casi non servono. Anzi, di solito sono invocati da chi ha qualcosa da farsi perdonare. Perché i “maestri” non ne hanno bisogno. Sono già riconosciuti dai loro ragazzi, meno dal Miur, dai sindacati, dalle burocrazie. Una grande ingiustizia. Come sono ingiusti tutti i meccanismi, i matematismi, come le graduatorie varie, perché prescindono dalle persone reali, cioè dalle loro effettive capacità e competenze oggi richieste.
Hard e soft skills, per usare un linguaggio che oggi va per la maggiore.
A quando contratti di lavoro, su una base comune generale ma con una sostanziosa autonomia di istituto, capaci di riconoscere questo “valore aggiunto”, cioè di pensiero positivo, di presidi, docenti, dsga e ata?
Ci sarà mai un momento nel quale i nostri giovani in gamba, costretti ad andare all’estero o a rifugiarsi nella precarietà, troveranno che le loro capacità e competenze vengono e verranno riconosciute dal mondo della scuola e dell’università, oltre che dal mondo del lavoro?
A quando docenti trentenni in gamba nelle scuole? I licei sperimentali degli anni ottanta e novanta, con i comitati di valutazione, avevano la possibilità di esprimere, appunto, una valutazione sul valore effettivo del “servizio” dei docenti “comandati” dalle altre scuole per un incarico ad hoc in questi percorsi sperimentali: in caso di giudizio negativo a questi docenti veniva annullato il comando e lasciavano la scuola. Un segnale di intelligenza concreta che però non trova riscontri nelle discussioni su questi temi oggi.
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