Sorprende che, vista la guerra con gli orrori che ne conseguono, vi sia una sorta di corsa a schierarsi, invece di alzare lo sguardo ed andare ai fondamentali del senso della vita, quindi anche di questa e di tutte le guerre.
Assistere poi al più grande esodo di profughi dalla seconda guerra mondiale, sui quattro milioni e mezzo, e sentirsi impotenti di fronte a queste immagini, ci dice che il corso della storia di questi nostri anni sta cambiando così velocemente da lasciarci senza parole. A parte le chiacchiere da salotto di certe trasmissioni televisive, di alcuni giornali e di tutto il mondo social.
Sta nascendo una nuova stagione di guerra fredda, con gli Usa e la Cina come protagoniste, con una nuova Yalta ed il mondo suddiviso ancora in zone di influenza?
E, nel frattempo, nascerà finalmente l’Europa politica, di contro ai frammenti nazionalisti e regionalisti che vorrebbero invocare loro particolarità separatiste, dimenticando che nessuno si può salvare da solo, non solo durante la pandemia, ma anche nella geopolitica?
E l’Onu, reso inefficace dai poteri di veto, avrà ancora un ruolo solo di tavolo delle buone intenzioni?
Nel frattempo, la tragedia ucraina ci ha fatto capire che le sempre troppe guerre dimenticate non possono più essere considerate, appunto, dimenticate.
E che la profezia di Eraclito, sulla guerra madre di tutte le cose, non può e non deve essere considerata figlia del destino inesorabile. Nemmeno la nota a piè di pagina di hegeliana memoria, secondo cui il ricorso alla guerra garantisce non solo la risoluzione delle controversie, ma esprime un alto valore morale perché, secondo lui, “preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua” (Lineamenti della Filosofia del Diritto, § 324). Chiara la battuta contro la kantiana “pace perpetua”, di matrice illuministica.
Quel valore morale, di cui parla Hegel, in realtà rimanda al ruolo del diritto, come mediatore tra istanze soggettive ed oggettive, quel diritto che oggi tutti invochiamo, ma che non vorremmo mai fosse sopravanzato dall’istinto di guerra nelle controversie di qualsiasi tipo, perché convinti, contro Hobbes, che le persone non sono mere espressioni dell’”homo homini lupis”.
Anzi, per rimanere all’ambito del pensiero moderno, piuttosto vincolate allo spinoziano “nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere”, ossia “non bisogna ridere, né piangere, né indignarsi, ma comprendere”.
Sforzarsi di comprendersi, dunque, cioè dialogare, nonostante tutto e tutti, anche nonostante se stessi.
Il motivo è semplice, e ce lo ricorda Antonio Rosmini: le persone sono “diritto sussistente”. Quindi la fonte prima del diritto non sono gli Stati, ma gli Stati stessi sono solo chiamati a “regolare le modalità del diritto”, cioè a servire le persone, per creare condizioni durature di pace e di sana convivenza.
Perché sono le persone, cioè, nel linguaggio di La Pira, “la povera gente”, il cuore e la fonte prima del diritto. Anche se rimane sempre il rischio populista, ovvero l’ideologia che illude la “gente” stessa a diventare succube di idee che le rendono strumenti, e non, appunto, dei fini.
Perché le guerre questo presuppongono, considerare le persone dei soli strumenti di potere in mano altrui.
Chiarito questo, ci troviamo di fronte, per chiudere, al fondamentale distinguo che ci viene offerto da Vico: se politica derivi da pòlis, cioè comunità, oppure da pòlemos, cioè guerra.
Già rispondere a questa domanda è compiere quel passo in avanti che solo ci può aiutare a capire la via d’uscita non solo alla tragedia ucraina e a tutte le guerre dimenticate, ma, prima ancora, alle ragioni di tutti i conflitti, a partire dalle grandi e piccole disuguaglianze, alle mille ingiustizie che impediscono lo sguardo veritativo verso la nostra storia, ridotta sempre più a mero esercizio competitivo delle mille volontà di potenza.
Allora capiremo che tutte le guerre, in fondo, sono guerre civili, e che cercando la verità della nostra vita dilaniata e lacerata, siamo chiamati ad un senso della memoria storica che non solo è un diritto, ma, prima ancora, un dovere.
E così potremo finalmente comprendere tutti la ragione per cui la pace che tutti invochiamo in realtà è e rimane un dono, ossia un compito mai concluso, mai definitivo. Ma il senso stesso della vita.
Una pace interiore, e poi una pace tra di noi, ai vari livelli.
Perché, lo sappiamo, solo chi è in pace con se stesso è e rimane in pace col mondo.
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