Alessandro D’Avenia, sul Corriere del 3 settembre, si rivolge agli insegnanti, prendendo spunto dal crollo del ponte di Genova del 14 agosto scorso, invitandoli a costruire passaggi stabili dove fare transitare gli alunni verso la vita e verso l’avvenire, cavalcavia sicuri, essendo “anche la scuola un ponte che, ogni giorno, trasporta quasi 9 milioni di vite da un destino a una destinazione, dall’informe alla forma pienamente umana della vita”.
La manutenzione
E poi aggiunge: “Proprio tu sei chiamata/o alla manutenzione ordinaria e straordinaria del ponte. Guardati entrare con la tua cassetta degli attrezzi: alla tua professionalità sono affidate le loro vite. Come avresti voluto ti si guardasse e che cosa avresti voluto sentire? Non certo quello che disse una volta una docente, fissando la nuova classe, il primo giorno del primo anno di superiori: «Siete troppi, vi ridurremo»”.
Amare e conoscere. Il prof mediatore
E scrive pure, “Curando, impariamo ad amare e conoscere, e così maturiamo anche noi. Bambini e adolescenti vengono alla luce se trovano educatori in grado di nutrire il loro bisogno di avere una forma: formarsi. E lo chiedono a chi è già «formato», ma se costui non se ne cura le vite crollano. Il docente, mediatore tra l’informe e le forme di vita che racconta, a partire dalla sua, è chiamato alla cura, per professione”.
“I ragazzi vogliono adulti veri: né amiconi nostalgici dell’adolescenza né aridi erogatori di nozioni. La cultura non è una sovrastruttura snob, ma il modo in cui la vita umana cerca il suo compimento. Non basta informare, occorre formare: aiutare la vita a compiersi e a dar frutto. Per farlo serve generosità, che ha la stessa radice di generare. La relazione educativa o è generativa (amplia il naturale desiderio di far esperienza della realtà) o è degenerativa (chiude il desiderio, annoia, spegne il coraggio e la curiosità)”.
D’accordo con D’Avenia
Tutti concetti con cui non si può che essere d’accordo se non ci fosse, a nostro giudizio, una intonazione che non condividiamo, quella cioè della predica, del pontificale appunto rivolto ai docenti, talvolta distratti, talvolta pretenziosi, talvolta mestieranti e talvolta pure così egoisti da non percepire nemmeno l’idea del compito che hanno di fronte.
“Guardati entrare in classe, osservati: dal portamento ai libri che hai con te. Che cosa vedi? Perché sei lì? Per chi sei lì? Perché hai scelto chimica, italiano, fisica, diritto… e hai scelto di raccontarli a una nuova generazione? Rispondi a queste domande mentre ti vedi disporre gli strumenti del mestiere sulla cattedra. Adesso ascoltati formulare l’appello. Come pronunci i nomi dei tuoi studenti? Come guardi i loro volti? E che cosa vedi sul tuo?”.
“Ma ricorda – scrive ancora il prof D’Avenia – che i ragazzi saranno lo specchio di ciò che trasmettono i tuoi occhi, perché lo sguardo umano non è mai neutro ma contiene esattamente la vita che vuole dare o togliere, così dal loro sguardo saprai sempre com’è il tuo. Desiderano ciò che tu desideri: essere riconosciuti, valorizzati, supportati. Non vedi, forse, la tua stessa carne? Perché non prendersene cura come vorresti si facesse con te?”
Un vecchio bianco per antico pelo
Insomma, se non lo conoscessimo somaticamente, per i tanti interventi televisivi, meritati del resto, penseremmo a un vecchio “barbasavio”, curvato dagli anni e dal cammino stanco, che impartisce lezioni ai suoi colleghi, dicendo nello stesso tempo che lui, ponendosi e ponendo (da “porre” che è poi collocare, posare un ponte) quelle domande, quei ponti li ha saputo costruire, li conosce per averli pure realizzati, li sa percorrere e rinforzare, evitando catastrofi.
E invece D’Avenia è un giovane insegnante, scrittore di successo, vincitore di premi letterari e ora anche opinionista del Corriere. Tuttavia forse dimentica, e lo diciamo con tutto il rispetto e l’ammirazione verso l’artista e il docente, che centinaia di miglia di prof, non solo sono sulla sua stessa lunghezza d’onda, praticano cioè ogni giorno ciò che lui suggerisce, ma a loro non è dato nemmeno lagnarsi o gloriarsi o dire la loro o pontificare in nessun luogo della pubblica piazza mediatica. Nemmeno segnalare o indicare o proporre o progettare, più che un ponte, nemmeno la stessa idea di “facitore di ponte, di pontifex”.
I prof di frontiera, delle periferie e i ponti con la povertà
Lavorano all’ombra, cioè, negli antri delle loro classi e moltissimi tra i misteri delle scuole di frontiera, dove tutto è lecito e dove perfino la Legge e le istituzioni devono spesso arrendersi.
Un pensiero per costoro, è d’uopo, anche perché sanno bene che la“cultura non è una sovrastruttura snob”, come giustamente sottolinea il giovane D’Avenia, ma un grimaldello per scardinare la povertà e certa struttura malavitosa che cerca il suo compimento anche nella scuola, arruolando e promettendo ai ragazzi ciò che lo Stato non è in grado di dare.