Una delle rappresentazioni più significative della figura del padre, la troviamo nel film “La vita è bella” di Roberto Benigni. L’attore, Guido nel film, insieme al suo bambino, Giosuè, si trova a vivere la tragedia del nazismo dentro un campo di sterminio. In questa terribile condizione, Guido inscena con Giosuè una farsa a lieto fine. Immagina di giocare con lui ad una gara a punti, in cui vince, ricevendo in regalo un carro armato, chi supera tutti gli ostacoli.
In questa storia sono nascosti due grandi messaggi. Il primo è che nella vita hanno la meglio coloro che sono capaci di adattarsi alle diverse situazioni. Il secondo è che uno dei compiti specifici dell’educatore (o del comunicatore) consiste nella capacità di infondere speranza ed ottimismo. La scena saliente del film è quella in cui il papà, mentre è condotto alla fucilazione, passa di fronte agli occhi sbalorditi del bambino, col viso sorridente, imitando le grandi falcate gambali dei nazisti che lo conducono alla morte. Erano solo bugie quelle che Guido raccontava al figlio? No, i carri armati c’erano veramente. Sbucano subito dopo. Ma sono quelli americani che vengono a liberare i prigionieri.
Chiediamocelo. In che modo un educatore o un comunicatore – padre, madre, insegnante, sacerdote, giornalista ecc. – dovrebbe presentare la realtà? Raccontando favole, scherzando, giocando? In un certo senso, sì. Mi vengono in mente quei genitori, o quei nonni, i quali la mattina varcano, con i loro piccoli, il portone di una scuola materna, mentre questi piagnucolano per tornare a casa. E loro, i grandi, sono lì a distrarli, affabulando, evocando cose gradevoli …
Del resto, chi ama non mente mai. Ma, come va rappresentata la realtà in questi tempi infausti? Ci sono due modelli, “bugiardi” ed opposti, che vanno decisamente evitati. Il primo è quello dell’ottimismo ingenuo dell’adolescente euforico che immagina il mondo come una tavoletta incerata su cui imprimere infinite volte il sigillo del suo ego. Oppure, come un giardino pieno di fiori da cogliere a piacimento.
Il secondo modello menzognero, invece, è quello del pessimismo monolitico del depresso che focalizza sulla grande pagina della vita soltanto le macchie.
Quando parliamo del senso delle cose, dobbiamo, invece, sempre rifarci ad un terzo modello, quello della complessità. Si all’ottimismo, ma a quello tragico. No, la vita non è solo bianca o solo nera. Essa è, ad un tempo, terribile ed affascinante. Ambivalente e bifrontale.
Perché la realtà è profondamente buona, nelle parti e nel tutto, ma deve fare i conti con la casualità negativa e con la libertà male usata dagli uomini. Non sono mai stato propenso a prestar fede ai filosofi del pessimismo cosmico. A quelli che sostengono che la sofferenza non è un incidente fortuito ma l’essenza stessa del mondo. E che l’universo altro non è che “un’arena di esseri tormentati ed angosciati” (Schopenhauer). Ho sempre pensato, invece, che abbia ragione il grande Agostino quando afferma che “Non ha una mente sana colui che trova a ridire della creazione”. E che il male non è l’essenza delle cose, ma qualcosa che manca alle cose, un “defectus”, l’assenza di qualcosa che dovrebbe esserci ma non c’è.
Come quando, ad esempio, diciamo che qualcuno è cieco, perché manca della vista che è normale ci sia. Oppure è cattivo in quanto manca della opportuna bontà. Sempre Agostino precisava che il male riguarda sempre o la parte rispetto al tutto (alcuni muoiono ma la totalità resta in vita); o il prima rispetto al dopo (l’immaturità dell’adolescente rispetto alla consapevolezza che acquisirà da adulto); oppure, la minore perfezione della materia rispetto allo spirito (e quindi i terremoti, i cataclismi e le epidemie a cui è soggetto il mondo fisico).
Ed, allora, possiamo ancora dire che la vita è bella? Si, se teniamo presente che, nell’immediato, hanno sempre ragione gli ottimisti, anche quando hanno torto, in quanto hanno il grande merito di infondere speranza e fiducia negli altri. Inoltre, se vuoi vedere il positivo, in una situazione, lo trovi sempre. Mentre, invece, nei tempi lunghi, in genere hanno ragione i pessimisti, dal momento che, a lungo andare, c’è sempre il declino, degli uomini e dei sistemi sociali. Infine, però, nella visione globale delle cose, hanno ragione ancora e sempre gli ottimisti, perché la storia può sempre essere racchiusa dentro un complessivo disegno di progressiva consapevolezza.
In ogni caso, essere ottimisti o pessimisti è frutto di una scelta. Chi vede le cose con le lenti chiare è perchè ha deciso di essere fiducioso e perché si sforza di essere felice. Possiamo definire tale atteggiamento “ottimismo della volontà”. La fiducia nella realtà, in questo caso, va considerata un impegno, un dovere sociale. Diceva Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, che “La felicità della vita dipende dalla qualità dei pensieri”. A lui fa eco Victor Frankl, lo psicanalista contemporaneo sopravvissuto ai campi di concentramento: “Vivere è sofferenza. Sopravvivere è trovare il senso di questa sofferenza”.
Luciano Verdone
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