Nei prossimi anni, quasi la metà delle attuali professioni non esisteranno più. Come non esisteranno più gli attuali contratti e uffici di lavoro.
Le previsioni provengono da una ricerca realizzata da Ubs, in collaborazione con The Future Laboratory e intitolata ‘The Future of Workforce’.
La ricerca, presentata il 6 settembre a Londra, è stata realizzare per definire il modo in cui la realtà della forza lavoro continuerà a trasformarsi nei prossimi anni a livello globale.
Ebbene, il 47% del totale delle attuali professioni, sarebbe destinato a quanto pare a essere cancellato nei prossimi decenni dalle “nuove tecnologie”.
Ma probabilmente, la ‘profezia’ più sconvolgente è quella secondo cui il 75% dei lavoratori del pianeta non lavorerà più, di qui a non molto tempo, in un ufficio tradizionale.
Non è una novità assoluta, invece, la crescita esponenziale dei freelance, o dei liberi professionisti, a scapito dei dipendenti classici legati al posto fisso: l’aumento esponenziale, del 45%, registrato fra il 2004 e il 2013 ci dice che il processo, dei contratti non subordinati o a progetto, è già in atto.
Il report patrocinato dal colosso bancario svizzero e multinazionale si concentra soprattutto su quelle che vengono presentate come le opportunità di questo ‘nuovo mondo coraggioso’. E sottolinea l’elemento della flessibilità come una condizione sempre più fondamentale per le aziende, ma anche come un fattore potenzialmente positivo per quei lavoratori inclini a “preferire una presenza effettiva a una presenza costante“.
La ricerca evidenzia poi un mix di “idealismo e pragmatismo” nelle aspettative dei cosiddetti millennials, tutti i nati fra i primi anni Ottanta e gli anni Novanta: sondando un campione generazionale, risulta infatti che un 65% desidera lavorare per aziende od organizzazioni animate anche da “intenti sociali”; e che un 83% di costoro è addirittura disposto a intascare “uno stipendio inferiore” pur di farlo.
Abbiamo provato a immaginare cosa potrà accadere in futuro, tra 50 anni, nella scuola. Il luogo, alla pari di tutti i dipendenti pubblici, del posto fisso. Ma anche quello del lungo precariato e, dopo la Buona Scuola, del trasferimento facile e a rischio lontananza.
Sempre rimanendo alla Legge 107/15, le avvisaglie già sembrano visibili: ci riferiamo al periodo di apprendistato-formazione post-concorso, che durerà tre anni; dei trasferimenti e degli incentivi legati a doppio filo con abilità, titoli e competenze; del piano nazionale di scuola digitale, che intende dematerializzare e informatizzare tutte le operazioni (dal registro di classe alla compilazione delle pagelle, dalle comunicazioni con i genitori alla didattica on line, come anche la formazione (a distanza).
Gli stessi studenti dovranno adeguarsi: saranno sempre più connessi (h24), meno legati allo zaino tradizionale e collocati in aule multimediali, dove le lezioni potranno essere fruite pure a distanza.
Rimane da capire se anche gli aspetti contrattuali, oggi carenti da un punto di vista economico (con il contratto fermo dal 2009), ma più vantaggiosi (rispetto ad altre professioni, soprattutto nel privato) perché rispettosi di una mole sostanziosa di diritti del lavoratore: è probabile che la “leggerezza” dei byte renda anche meno solidi i contratti di docenti e Ata (si chiameranno ancora così?). Ad iniziare, se si guarda anche la riforma della PA in via di approvazione finale, dalla maggiore difficoltà ad essere assunti, dalla possibilità di essere licenziati molto più facilmente di oggi e di percepire incrementi solo in caso di prestazioni eccellenti.
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